Buongiorno,
dico qualcosa sull'angoscia di morte che incontriamo così frequentemente nella clinica del paziente anziano.
Come è noto, Freud escludeva la presenza di un'idea della morte nell’inconscio e interpretava l’angoscia di morte come un derivato psichico dell’angoscia di castrazione. Ci troviamo anche in questo caso di fronte a ipotesi e teorizzazioni profondamente discusse dalla psicoanalisi post-freudiana.
Franco Fornari sosteneva che nell’inconscio filogenetico, teorizzato dallo stesso Freud insieme all’inconscio ontogenetico o della rimozione edipica, è presente una “idea primaria” della morte: essa è dinamicamente attiva, ma non come “pulsione di morte”, bensì come “pre-concezione”, in senso bioniano, come pre-disposizione, filogenetica appunto, che, in connessione ed interazione con i Codici Affettivi primari, avrebbe il senso e la funzione di riconoscere il pericolo di morte e concorrerebbe ad orientare gli individui e la specie verso scelte di vita e di autoconservazione, ma anche di predisporli in qualche modo, psichicamente, all’esperienza di morte.
Robert Langs ha individuato nell’
angoscia di morte, intesa come angoscia primaria e non derivata, una delle sorgenti più potenti di quella ch’egli chiama la
follia nella vita quotidiana, una follia di cui paziente e analista condividono le angosce e le difese deneganti.
Da questa angoscia di morte, quello che Langs definisce il “sistema inconscio di superficie” protegge l’Io utilizzando difese anche fortemente patologiche, persino di tipo psicotico, con le quali la “follia” del terapeuta può colludere per sfuggire a sua volta al terrore della morte.
A sua volta, Harold Searles ha osservato che “proprio l’impostazione teorica della psicoanalisi, che si è concentrata principalmente sullo sviluppo infantile, ci ha impedito di tenere nella giusta considerazione il problema della morte, e questo indipendentemente dalle annose discussioni pro o contro l’ipotesi di una “pulsione di morte”.
Emanuele Bonasia ha recentemente sottolineato come “nella maggior parte della letteratura psicoanalitica vi sia poco spazio per il tema della paura della propria morte: ciò è in contrasto col ruolo da essa giocato in psicopatologia, nella clinica psicoanalitica e nella vita di ogni essere umano”.
In contrasto con Freud, che riconduce l’angoscia di morte all’angoscia di castrazione, afferma la natura “reale” e “primaria” dell’angoscia di morte. Contro tale angoscia l’autore ipotizza, rifacendosi a Bion, “che la parte psicotica della personalità impegna tutte le sue energie allo scopo di disattivare l’apparato per pensare e alterare in tal modo la verità”.
Nella psicoterapia degli anziani, la trattazione di tale angoscia è tra i temi e i terreni principali di esplorazione, interazione ed elaborazione. Le trasformazioni nel ciclo della vita fanno sì che, da qualche anno, sulla scena dell’intervento clinico, orientato in senso psicoanalitico, compaiano sempre più frequentemente uomini e donne di oltre 60 ed anche 70 anni.
Nei casi più favorevoli, le buone condizioni di salute, il benessere socio-economico, le risorse psichiche e attitudinali, la motivazione del paziente, rendono l’ipotesi di una psicoterapia orientata e strutturata in senso psicoanalitico, una proposta clinicamente corretta ed appropriata.
Si pone qui il problema della “analizzabilità” del paziente anziano, ed anche in questo caso le posizioni teorico-metodologiche di molti psicoanalisti si sono sempre più frequentemente allontanate dall'originaria posizione freudiana, assai pessimista circa la possibilità di sottoporre utilmente pazienti troppo in là, a suo avviso, in età al trattamento psicoanalitico. Freud scrisse ad esempio: “l’età del paziente ha molta importanza ai fini del trattamento psicoanalitico, in quanto, verso la cinquantina o dopo di questa, di regola viene meno l’elasticità dei processi mentali da cui dipende il trattamento”.
Si tratta di una valutazione che ormai risulta insostenibile ed è smentita da quanto la ricerca e le neuroscienze in particolare ci dicono ormai da molti anni circa le straordinarie capacità plastiche del cervello e di riorganizzazione dei processi mentali anche in età avanzata.
La liberazione dall’angoscia di morte non implica l’acquisizione di una sorta di indifferenza atarassica al morire, che rimane comunque, anche dopo una psicoterapia, un pensiero doloroso; essa però consente di liberarsi da quei fantasmi per i quali il morire è profondamente associato a sentimenti di colpa e, ancor più, alla sottomissione interna, inconscia, ad oggetti arcaici, abbandonici o persecutori. Sono tali fantasmi a rendere il pensiero della morte insostenibile.
Allo stesso modo, la psicoterapia dell’anziano non trasforma l’invecchiare in una fase gioiosa ed esaltante del ciclo di vita. Invecchiare vuol dire, irreparabilmente, decadere, subire perdite: di persone, di ruoli sociali, di forza, di bellezza; e tuttavia la psicoterapia psicoanalitica può aiutare l’anziano ad accettare tutto ciò come un destino necessario, che, allo stesso modo del morire fa parte del programma di vita dell’uomo, un programma che attraverso la morte degli individui apre spazi di vita per nuovi individui e nuovi progetti vitali.