Quando una gravidanza si dice a rischio

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

Quali sono i fattori di rischio di una gravidanza

Quali sono i fattori di rischio relativi alla gravidanza?

In linea generale, i fattori che possono creare problemi medici alla madre o al feto in gravidanza e renderla “a rischio” si possono classificare in quattro tipologie:

  1. Età: secondo molti studi, avere il primo figlio dopo i 35 anni aumenta le probabilità di dover ricorrere al cesareo e di avere un travaglio prolungato; inoltre, con l’età cresce la probabilità di mettere al mondo un bambino affetto da Sindrome di Down o da altre Trisomie.
  2. Stile di vita: il consumo di alcolici in gravidanza aumenta le probabilità di parti prematuri o aborti spontanei ed espone il feto alla cosiddetta “sindrome feto-alcolica”; inoltre, fumare durante la gravidanza incrementa le probabilità di parti pre-termine e costituisce un fattore di rischio della SIDS, la cosiddetta “morte in culla”.
  3. Caratteristiche specifiche della gravidanza: le gravidanze gemellari aumentano il rischio di basso peso alla nascita e parti prematuri (prima della 37esima settimana di gestazione); anche una pressione arteriosa elevata può determinare gli stessi problemi. Il diabete gestazionale è un segnale di imperfetto controllo metabolico. Esso può non provocare grandi rischi, se ci si attiene a un regime alimentare controllato e alle indicazioni e terapie prescritte dallo specialista; può però predisporre all’ipertensione in gravidanza. L’aumento della pressione in gravidanza è spesso indicato con il termine “gestosi”; se non controllata, questa aumenta il rischio di parto pre-termine e può dar luogo a preeclampsia sindrome caratterizzata da un importante aumento della pressione arteriosa dopo la 20° settimana di gravidanza; la preeclampsia dà luogo a problemi renali (segnalati da presenza di proteine nelle urine) e può interessare altri organi della gestante, quali, fegato e cervello. Se non trattata, può sfociare in eclampsia, condizione caratterizzata da convulsioni e che può rivelarsi fatale per la madre e/o il feto e provocare problemi di salute a lungo termine. La gestosi in una precedente gravidanza tende a ripresentarsi, per cui è opportuno prestare una particolare attenzione al controllo della pressione
  4. Patologie preesistenti: la gravidanza può essere complicata da patologie insorte in precedenza, come ipertensione, ovaio policistico, diabete, nefropatie, patologie autoimmuni (lupus o sclerosi multipla), patologie tiroidee e obesità; ques’ultima condizione favorisce l’insorgenza di diabete e ipertensione in gravidanza. Altra patologia preesistente che può mettere a rischio la gravidanza è l’Hiv/Aids. Le donne in attesa sieropositive o affette da Aids possono trasmettere il virus al proprio feto durante la gravidanza; più facilmente la trasmissione può avvenire durante il travaglio e il parto o anche attraverso l’allattamento. Fortunatamente, oggi ci sono molti trattamenti efficaci per ridurre la diffusione del virus Hiv dalla madre al feto o al neonato.

7 sintomi di una gravidanza a rischio da non trascurare

Alcuni disturbi possono accompagnare la donna in dolce attesa per gran parte della gravidanza e sono dunque ritenuti “normali”, ma ci sono altri sintomi che costituiscono un “campanello d’allarme” e per i quali ci si deve rivolgere immediatamente al proprio ginecologo. Tra questi:

  1. Perdite ematiche: un sanguinamento vaginale persistente nel corso di una gravidanza può essere causato da diversi eventi. Ad esempio, perdite ematiche e forti dolori addominali (spasmi) possono essere i sintomi di una gravidanza extrauterina o di aborto spontaneo. Se la perdita ematica è avvenuta nel terzo trimestre, può essere il “segno” del distacco di placenta. In linea generale, è bene rivolgersi subito allo specialista o al pronto soccorso.
  2. Nausea e vomito: la nausea gravidica è e molto comune, ma, se grave, può condurre la gestante in uno stato di disidratazione pericoloso per il feto stesso; in caso d’iperemesi gravidica è opportuno rivolgersi al proprio ginecologo che potrà prescrivere gli appropriati trattamenti.
  3. Ridotta attività fetale: se il feto non si muove, è bene eseguire una visita di controllo.
  4. Contrazioni all’inizio del terzo trimestre di gestazione: se si verifica questo evento, si potrebbe trattare dell’avvio di un parto pre-termine, ma esiste anche una diversa possibilità. Molte donne incinte, infatti, avvertono le cosiddette contrazioni di Braxton-Hicks, ovvero delle contrazioni transitorie, non ritmiche, e la cui intensità non aumenta nel tempo.
  5. Rottura delle acque prima deltermine: se si verifica questo evento, la gestante deve rivolgersi immediatamente al proprio specialista e recarsi in ospedale.
  6. Mal di testa forte e persistente, dolore addominale, disturbi visivi e gonfiore durante terzo trimestre di gravidanza: questi sintomi possono costituire i segnali di una condizione grave e potenzialmente fatale, detta preeclampsia, patologia caratterizzata da ipertensione e proteinuria, che si verifica in genere dopo la 20° settimana di gravidanza. Se siete incinte e accusate questi disturbi, rivolgetevi immediatamente al vostro medico.
  7. Influenza: se una donna incinta accusa i sintomi tipici delle patologie stagionali deve rivolgersi al proprio medico. Le malattie virali possono creare problemi al feto, soprattutto in certe fasi iniziali della gravidanza. Per prevenire queste situazioni, molti specialisti suggeriscono alle gestanti l’uso del vaccino antinfluenzale, anche per evitare le rare ma complicazioni anche gravi dell’influenza.

Gli esami di screening prenatale consigliati dopo i 30 anni

Come si è detto, un fattore che può generare complicazioni è l’età della madre, in quanto dopo i 35 anni aumenta gradualmente la probabilità che si verifichino problemi genetici nel feto; pertanto, sempre più spesso le future mamme scelgono, seguendo le indicazioni del proprio ginecologo, di sottoporsi a test genetici prenatali non invasivi per capire che cosa possono aspettarsi.

Alcuni test genetici prenatali sono test predittivi: il risultato dell’esame fornisce informazioni relative solo alla probabilità che il bimbo possa nascere con una patologia genetica; altri test sono invece “diagnostici”, poiché forniscono informazioni più precise e affidabili sulla presenza di specifiche patologie genetiche.

In linea generale, il ginecologo può decidere di sottoporre entrambi i genitori a particolari test per escludere che il feto possa nascere con malattie genetiche, quali fibrosi cistica o anemia falciforme: vi è infatti la possibilità che due genitori sani, ma portatori di un gene che causa una di queste malattie, mettano al mondo un bimbo affetto dalla patologia. Di solito, questi esami specifici si prendono in considerazione quando è presente una storia familiare di malattia (diverse persone affette nell’albero genealogico).

Altri test sono invece utilizzati per saggiare la probabilità o verificare la presenza delle più comuni alterazioni genetiche.

Vediamo insieme i più diffusi test prenatali:

  • Test della translucenza nucale: svolto tra l’undicesima e la tredicesima settimana, è un esame prenatale che aiuta a valutare la probabilità che il feto sia affetto da sindrome di Down. L’esame consiste in un’ecografia nel corso della quale, dopo aver misurato la lunghezza del feto, si misura lo spessore della manifestazione ecografica dell’accumulo di fluido dietro la nuca fetale. La misurazione permette a un software specifico di calcolare la percentuale di rischio, considerando anche il rischio a priori in base all’età della donna. L’esito può essere combinato con i risultati di ulteriori test sul sangue materno (bi test).
  • Bi-test: è un prelievo di sangue materno che viene eseguito al momento dell’ecografia relativa alla translucenza nucale. Si valuta il livello di due ormoni prodotti dalla placenta e ancora una volta viene calcolato un rischio, combinando età, misura della translucenza e esame del sangue.
  • Tri-test: svolto tra le 15esima e la 20esima settimana di gravidanza, è una piccola batteria di esami biochimici condotti su un campione di sangue venoso e si basa sull’analisi delle concentrazioni sieriche di tre markers biochimici, ovvero l’alfafetoproteina, l’estriolo non coniugato e la gonadotropina corionica umana. Anche questo L’esame può contribuire a quantificare il rischio di anomalie cromosomiche nel feto.

Quelli descritti fin qui sono test predittivi, ovvero che si basano su correlazioni osservate statisticamente su un gran numero di gravidanze, e non possono fornire più di una stima della probabilità che una anomalia cromosomica sia presente. Se si ottiene un risultato positivo da uno di questi esami di screening, il medico può scegliere di utilizzare altri test di approfondimento, come amniocentesi e villocentesi, che risultano però invasivi e in alcuni casi possono portare a complicazioni e, seppure raramente, all’aborto.

Oltre ai test di screening, esistono test che, esaminando la sequenza di specifici tratti del DNA, possono verificare la assenza o presenza della anomalia. Tra questi il più comune è l’analisi del Cell-free fetal DNA.

Il test sfrutta l’analisi del DNA libero fetale che circola nel sangue materno per valutare la presenza di aneuploidie (errori nel numero di cromosomi) fetali comuni in gravidanza: la presenza di un cromosoma 21 (intero o parziale) in eccesso (Sindrome di Down), la presenza di tre copie (trisomia) del cromosoma 18 (Sindrome di Edwards) o del cromosoma 13 (Sindrome di Patau), o un corredo anomalo di cromosomi sessuali, come per esempio un corredo “X” (Sindrome di Turner o Monosomia X) o “XXX”, o “XYY” invece del normale “XX” per le femmine e “XY” per i maschi. Si tratta di un test che prevede un prelievo di sangue della madre per ottenere dei risultati in meno di 10 giorni.

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