Narcisismo e amore: ecco cosa aspettarsi

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

narcisismo

Dr. Omar Bellanova, specialista in psicologia. 


Probabilmente, la prima cosa opportuna da fare quando si parla di narcisismo in ambito clinico e, quindi, di disturbo di personalità narcisistica (DPN), al fine di averne una chiara e puntuale comprensione, è prendere distanza da una divulgazione che ha reso di pubblico dominio vecchie teorie che oggi risultano del tutto sorpassate e obsolete, le quali portano spesso a utilizzare, in modo non sempre esatto, la definizione di narcisismo all’interno dell’esperienza quotidiana.

Nell’immaginario comune, pensando al narcisismo, è quasi automatica la tendenza a ricollegarsi al personaggio mitologico di Narciso, da cui la definizione stessa ha preso il nome, il quale visse talmente incentrato sulla propria bellezza da riuscire ad amare soltanto se stesso, finché di questo egocentrismo esasperato e solitario ne restò vittima, ma non prima di aver fatto soffrire chi avesse avuto in vita sua sventura di incontrarlo e innamorarsi di lui.

È sicuramente un facile luogo comune utilizzare l’aggettivo di narciso quando vogliamo descrivere e riassumere un nostro incontro con un “rappresentante” di questa figura mitologica: sarà sufficiente percepire una persona sicura di sé, che ama stare al centro dell’attenzione ritenendosi al di sopra degli altri, intrappolata in fantasie di grandezza e del tutto non disponibile su un piano emotivo, e avremo la certezza di aver di fronte un narcisista.

Tuttavia, mi preme precisare che questa definizione, seppur non inesatta su un livello del tutto descrittivo e superficiale, coglie ben poco della vera essenza del narcisista, di ciò che oggi risulta dalle evidenze empiriche emerse dall’esperienza di chi si occupa da anni di questo particolare disturbo di personalità in contesti clinici, ciò che Giancarlo Dimaggio descrive nel suo libro “L’illusione del Narcisista” come “La malattia nella grande vita”.

Il sottile rancore con cui si scrutano gli altri colti nell’inaccortezza di non ammirarci e il disprezzo solenne con cui li si ripaga” è una sintesi puntuale che probabilmente ognuno di noi potrebbe facilmente sovrapporre al volto di un capoufficio, un conoscente, al nostro vicino di casa prepotente, al professore tanto odiato o ancor peggio a un partner che ci ha fatto tanto tribolare, arrivando a farci sentire inermi, non visti e svalutati.

Abbandonare le vecchie definizioni per seguire l’analisi proposta da Dimaggio nel suo libro ci permette di avere una reale percezione e comprensione del DPN. Cosa sicuramente necessaria per chi desidera clinicamente occuparsene, ma di certa convenienza per chi, più semplicemente, sente la necessità di riuscire a comprendere, gestire o ancor meglio tutelarsi quando entra in relazione con un possibile narcisista.

Diventa quindi opportuno sbirciare oltre agli aspetti finora conosciuti o legati a nostre personali visioni distillate dall’esperienza soggettiva. Vedremo anche come questo suggerimento verso una visone più ampia che intendo fornire, non tralascia assolutamente la descrizione che l’attuale DSM5 (il manuale diagnostico statistico per la classificazione dei disturbi psichiatrici) oggi ci fornisce, ma ne migliora la comprensione profonda. Lo scopo di tale ampliamento di prospettiva è di portarci a considerare che le “facce” del narcisismo possono essere molte di più, con la possibilità di oscillare dalla grandiosità alla vulnerabilità, dal carisma alla freddezza, ma tutte unite da una caratteristica fondamentale: il mondo sognato, i grandi obiettivi, le alte vette che non sono mai raggiunte fino in fondo o, ancora peggio, non rappresentano mai una situazione di vittoria e appagamento, ma solo un ennesimo gradino di una scala di insoddisfazione che rischia di essere percorsa all’infinito.

Per Kerneberg (1975, 1998) dietro l’arroganza e l’altezzosità del narcisista si nasconde un senso di fragilità, di vulnerabilità e di vuoto abissale, dove una maschera di onnipotenza ha il compito di tener nascosto un Sè trasbordante di invidia e vergogna. Il filone che in letteratura si sviluppa da Kohut (1971), invece, tende a considerare una maschera di vulnerabilità che resta indossata allo scopo di celare le fantasie grandiose della persona, la quale resta nell’attesa e nella speranza che qualcuno venga a scovare finalmente il suo essere speciale.

Per iniziare, quindi, a comprendere, partiamo dalla prima domanda che è utile farsi: perché il narcisista vive in questa infinita scalata alla vetta? “Sfuggire all’abisso” è la risposta che ci aiuterà a entrare in contatto con il suo mondo interno e iniziare a considerare tutti gli altri punti di vista necessari a una comprensione puntuale e profonda.

Come afferma Dimaggio, chi ha realmente avuto l’esperienza di incontrare dei narcisisti sicuramente può trovarsi nella posizione di descrivere la spiccata ambivalenza vissuta nei loro confronti, trovandosi a viverli come “déi” o come “mostri”, caratteristiche apparentemente inconciliabili tra loro, ma del tutto sintetizzate in un’unica persona.

Esiste una vasta ricchezza dei possibili stati mentali distinti con cui un narcisista è stato fino ad oggi descritto in letteratura, allo scopo di inquadrarlo e definirlo in vari sottotipi, ma a partire da Horowitz (1989) si sviluppa l’ipotesi più plausibile, ovvero che il tutto potrebbe essere riconducibile a una gamma di stati mentali complessa, esprimibile in vari momenti e situazioni di vita dallo stesso paziente. Tale ipotesi facilita il processo di comprensione e ci orienta a valutare che la presenza di un repertorio di oscillazioni osservabili appartiene a una personalità complessa e variegata di cui è giusto comprenderne l’essenza nucleare.

Cercherò di fornire una possibile sintesi di tale complesso aspetto della personalità tanto interessante.

Quali sono i sintomi del narcisismo?

Scegliendo di seguire la linea dell’introduzione ci è possibile riformulare questa domanda in: “Quali sono le caratteristiche distintive del narcisismo?”

Nel suo libro, Dimaggio afferma che, per comprendere se una persona è affetta da narcisismo, è importante osservarne il comportamento, ma ancor più fondamentale è il comprenderne l’esperienza interna.

Nell’esperienza clinica reale, non sono l’egoismo o l’ego pompato di steroidi o l’ambizione ad avere il sopravvento, come si è erroneamente portati subito pensare. Quelli ci sono, ma la vera essenza del narcisismo risiede in altre componenti.

Tra le più importanti, quella che è più facile da riconoscere è senz’altro la rabbia. Quella forza distruttiva che il narcisista è in grado di usare come reazione, più istintiva che pensata, che si attiva quando la fiducia e l’autostima verso se stesso sono sotto attacco. Vivere con questa rabbia è una vera e propria condanna per il narcisista, il quale viene del tutto privato delle sue energie per alimentarla.

Il disprezzo è lo strumento con il quale cercherà di gestirla, diventando l’arma di elezione verso chi verrà sorpreso a non volgere verso di lui il necessario sguardo di ammirazione. È lì, in quel modo di guardare con disprezzo l’altro, che si coglie l’apice della superiorità di un narcisista, non quando esso ottiene un successo (il narcisista non gode dei successi come potremmo credere e questo è parte del suo malessere). È in quello sguardo e quella disapprovazione che il narcisista riesce a sentirsi parte di una comunità di eletti.

La rabbia e il disprezzo giocano un ruolo fondamentale nell’esperienza interna del narcisista: servono a tenerlo lontano da il vuoto, ovvero quello stato di annullamento e di apatia in cui ogni cosa per lui diviene insapore e ovattata. Quando non è animato dalla competizione, il narcisista è lì, in una stanza mentale vuota dove si chiude per rifugiarsi, privo di ogni capacità di azione. In questo stato, ciò che viene a mancare è quello che secondo la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) è il senso di agency, il sentirsi appartenere quella animosità che tutti proviamo quando siamo orientati verso obiettivi sani e soddisfacenti.

Dopo questa premessa, ora, è possibile dare un senso maggiore a ciò che anima la spinta alla scalata continua del narcisista e la sua ricerca di grandiosità: è il percepire sempre alle spalle come unico risultato di un fallimento quella che Dimaggio definisce l’esperienza dell’abisso. È nell’inevitabile conseguenza dell’errore, dell’incapacità a raggiungere le alte vette, che il narcisista sperimenta quel senso di vulnerabilità e vergogna dovuta al fatto che l’altro scopra che tutta la sua esistenza non è altro che un bluff.

Nel nostro piccolo viaggio nella comprensione del narcisista è comunque opportuno integrare l’inquadramento dell’attuale DSM5 (il manuale diagnostico statistico), andando a vedere i criteri con cui è possibile fare diagnosi di Disturbo di Personalità Narcisistico.

Un pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:

  1. Ha un senso grandioso di importanza (per es., esagera risultati e talenti, si aspetta di essere considerato/a superiore senza un’adeguata motivazione).
  2. È assorbito/a da fantasie di successo, potere, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale.
  3. Crede di essere “speciale” e unico/a e di poter essere capito/a solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata.
  4. Richiede eccessiva ammirazione.
  5. Ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favo­re o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative).
    6. Sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta delle altre persone per i propri scopi).
    7. Manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri.
    8. È spesso invidioso/a degli altri o crede che gli altri lo/a invidino.
    9. Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti, presuntuosi.

Seguendo questi criteri, soprattutto per chi volesse attuare un intervento clinico verso questi pazienti, è possibile restare forviati, sviluppando un’interazione dove potrebbe apparire sensato il provare a ridurre il senso di grandiosità assieme al cercare di far sviluppare un empatia verso il prossimo, ma ciò costituirebbe soltanto l’intervento più efficace per far uscire per sempre dalla stanza della terapia il narcisista.

Dove deve mirare allora un intervento efficace? La comprensione degli schemi interpersonali di funzionamento di questi pazienti ci permette di individuare la giusta direzione da percorrere, seguendo il principio del “prima comprendere, poi intervenire”.

È opportuno ricordare che il disturbo di personalità narcisistica fa ovviamente parte della categoria diagnostica più sovraordinata dei disturbi di personalità (DP). Non è possibile pertanto fornire un’idea precisa di questo disturbo. ascrivendolo semplicemente a una serie di sintomi specifici, occorre una prospettiva in grado di rappresentare e definire il quadro in modo molto più esaustivo.

È assolutamente corretto riportare la presenza di una tipica sintomatologia (riportata nel DSM5), che tende a presentarsi in co-occorenza alla presenza di un DPN, difatti essi sono inclini alla depressione e ai disturbi bipolari, è possibile che si sviluppi un rischio di suicidalità in tarda età, la presenza di abuso di alcol e sostanze e di disturbi alimentari (sotto svariate forme) non è affatto rara.

È altrettanto importante però precisare che spesso questa sintomatologia si presenta come il risultato di un fallimento del funzionamento della persona per via delle modalità e delle aspettative che esercita nelle sue aree di vita: relazioni, lavoro, socialità.

Come avviene questo?

Ognuno di noi è guidato nelle sue azioni da un repertorio di schemi interpersonali (“Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità”, Dimaggio, Popolo, Montano e Salvatore, 2013). Tali schemi hanno funzione di fornirci, in presenza di un nostro obiettivo, una previsione su come reagiranno gli altri in risposta ai nostri desideri provati e le possibili strategie da mettere in atto qualora non dovessero essere soddisfatti.

La possibilità che possa attivarsi uno schema piuttosto che un altro ha influenze sullo stato di piacere e appagamento della persona e della qualità dei suoi stati mentali e, cosa ancora più importante, su i livelli di autostima. Quando ci si muove nel contesto delle relazioni sociali è facile sentire il bisogno di una guida, un punto di riferimento, informazioni che ci dicano che risposta aspettarsi: l’interfacciarci con il capo desiderando una promozione o con una persona che vorremmo invitare a cena ne sono solo un minimo esempio.

Quando l’ambiente non ci offre sufficienti informazioni (o non siamo in grado noi di coglierle) entrano in gioco gli schemi interpersonali. Uno schema “sano” consente all’individuo di far fronte ad aspetti problematici tipici della vita: obiettivi minacciati, rifiuti sociali, attacchi all’autostima, sviluppare e coltivare le relazioni ecc.

Come nasce uno schema? Nelle nostre primissime esperienze di vita avviene inevitabilmente di ritrovarsi in una situazione di difficoltà: fame, stanchezza, paura ecc. Si attiverà un bisogno al quale le nostre figure di riferimento, quasi sempre i genitori, forniranno una risposta coerente o non coerente alla nostra necessità. Nel primo caso, il sollievo sarà abbastanza immediato, e questo ci aiuterà a interiorizzare una percezione di noi come amabili e accuditi e degli altri in grado di comprendere le nostre necessità e soddisfarle. In caso contrario, l’esito sfavorevole, darà via alla possibilità di sviluppare degli schemi interpersonali meno adattivi.

Se parliamo, quindi, di disturbi di personalità, vuol dire che stiamo considerando un malfunzionamento di questi schemi, dove funzioni importanti della persona attivi durante l’esperienza interpersonale possono essere compromesse:

  • Filtro delle informazioni in entrata. A cosa decidiamo di dare importanza rispetto ciò che accade e ci circonda.
  • Previsione del futuro. Cosa aspettarsi dagli altri o cosa pensiamo di meritarci.
  • Lettura delle intenzioni degli altri e decodifica del loro comportamento. Come e perché qualcuno sta agendo in un certo modo.
  • Orientare il comportamento degli altri. La nostra previsione su gli altri che ci predispone ad un atteggiamento verso di loro che sarà a sua volta di generare con più probabilità una risposta attesa.

Il narcisista non fa eccezione a questo, anzi, gli schemi di questo disturbo di personalità hanno delle caratteristiche alquanto specifiche e distintive.

Seguendo questa impostazione, diviene possibile arrivare a formulare una comprensione e una capacità di intervento in grado di andare ben oltre da ciò che emergerebbe da una semplice diagnosi formale.

Dimaggio nel suo libro descrive tre categorie di schemi principali.

  • Schemi legati al blocco dell’autonomia. Si parla del concetto di agency. Avviene che il narcisista non è attivato verso i suoi obiettivi (spesso grandiosi) da desideri interni che riesce a scovare dentro di sé, ma piuttosto da una ricerca continua di ammirazione da parte dell’altro. Viene da sé che, se questa dovesse mancare (cosa del tutto possibile), il narcisista non sarebbe in grado di promuovere in modo autonomo le sue azioni e soprattutto di orientarle verso sani aspetti edonistici: il gusto delle cose semplici o il piacere di coltivare una passione personale.
  • Schemi legati al valore personale: esaltazione reciproca. Avviene quando ci si riconosce speciali agli occhi di una persona “inarrivabile”, la quale però, dopo averci fatto vivere tale idillio, volgerà lo sguardo altrove. Il risultato: una rabbia che monta in un lento cammino disseminato di vendette che prende via via forma e spazio.
  • Schemi legati all’attivazione del bisogno di cure. L’ingrediente principale è come il narcisista vede se stesso: vulnerabile. Come vede l’altro? Pronto a colpirlo con critiche e svalutazioni se dovesse mostrare la sua debolezza. Il risultato? Stare male rinunciando alla possibilità di aiuto o conforto. Questo schema come vedremo è tra quelli che mina la possibilità per il narcisista di stabilire legami sani e duraturi nelle relazioni importanti. Dove si impara? Non è sbagliato pensare allo “zampino” di mamma o papà.

Cosa si intende con “narcisismo perverso”?

Il termine di “narcisista perverso” oggi è di gran moda, come ogni cosa che fa paura si cerca di parlarne tanto, ma a volte non lo si fa sempre nel modo giusto. Meriterebbe una digressione a sé, cercherò di fissare alcuni punti principali per orientare il binario del ragionamento fuori da possibili teorie che lo assimilano più a un personaggio fiabesco, come il lupo di Cappuccetto Rosso, che a un funzionamento della personalità, come quando il titolo di un articolo mette il allarme risuonando del tipo “come difendersi dal narcisista perverso”.

Prima precisazione, il narcisista può non essere una persona sempre gradevole, ma se parliamo di narcisismo perverso o maligno, non stiamo parlando semplicemente di narcisismo. Eric Fromm (1964) fu il primo a fare cenno di una forma estrema di narcisismo denominandolo “malignant narcisissism”. Non molto dopo, Otto Kemberg (1987, 1975) riportava di aver trovato una possibile condizione di sovrapposizione di più aspetti di personalità: narcisistico, borderline e antisociale.

Seconda precisazione, stiamo parlando di un tratto molto estremo, che fortunatamente non sempre si presenta nella sua massima espressione.

Dimaggio nel suo libro parla di “triade oscura”, descrivendo il narcisismo affiancato da altri due aspetti fondamentali: il machiavellismo e la psicopatia. Il machiavellismo è “la tendenza a usare la conoscenza degli altri per manipolarli freddamente e sottrarre loro risorse”.

Con psicopatia si intende, invece, “la tendenza ad aggredire e manipolare gli altri senza rimorso, colpa o vergogna per le proprie azioni”. Letto in questo modo è evidente che la definizione assume un qualcosa di inquietante definendo un quadro dove il soggetto che ospita in se questi tre tratti incarnerà una persona che prova superiorità rispetto al prossimo che, alla ricerca continua di potere ed eccitazione non prova il minimo scrupolo per ottenerli attraverso la manipolazione, l’uso dell’astuzia.

Come si comporta il narcisista in amore?

Dopo questa sintesi della descrizione che fa Dimaggio nel suo libro, sarà adesso più facile rispondere a questa domanda.

Il narcisista a causa delle sue peculiarità e del funzionamento dei sui schemi interpersonali, vive con estrema difficoltà le relazioni, sia amicali che di coppia.

Si è facilmente portati a pensare che la continua richiesta di attenzione e ammirazione possano costituire la causa principale del fallimento delle relazioni, ma non è solo questo. È sul piano dell’intimità che il narcisista vive una grande difficoltà: il mostrare il suo lato vulnerabile. Proprio così, ogni essere umano, in quanto “animale sociale” può contare su una rete di rapporti sociali alla quale potersi rivolgere in caso di eventuali difficoltà e il supporto con il partner è tra le più significative di queste relazioni.

Per attivare questa funzione è abbastanza scontato che chi ci aiuta dovrà in qualche modo entrare in contatto con la nostra sofferenza. Provate ad immaginare però di fare una costante previsione “se mostro il mio lato vulnerabile, l’altro mi dominerà e se ne approfitterà e lo userà per il proprio vantaggio”, sarà ancora facile mostrare la propria vulnerabilità all’altro? E quello che accade costantemente al narcisista.

L’altro schema alternativo del narcisista non è meno semplice, nel momento della difficoltà potrà avvenire che cercherà di agire in modo autonomo, senza coinvolgere l’altro il quale potrà trasmettere un’immagine di sé come debole o sofferente, in questo caso il senso di colpa di cui abbiamo parlato prima è dietro l’angolo. L’essere colpevolizzato per la propria autonomia è uno degli “ingredienti” che ha da sempre caratterizzato la storia di vita di un narcisista.

Quindi, se vi state continuando a domandare come funziona il narcisista in amore, provate a immaginare come potreste farlo voi percependo un compagno/compagna che critica le nostre fragilità o che vi fa sentire abbandonati, o frenati, o colpevolizzati. Esattamente! Si mettono delle distanze nella relazione. Come lo fa il narcisista? In diversi modi: avvicinandosi ad altre persone, attraverso un congelamento dell’emotività, con distacco e indifferenza.

Come si cura il narcisismo?

Ricordiamo per un attimo che gli schemi interpersonali sono sempre guidati da dei bisogni e principalmente quelli del narcisista sono: il bisogno di essere riconosciuti speciali dagli altri e l’antagonismo/rango sociale.

Nel primo caso il narcisista, animato dal bisogno di ammirazione, vive il suo agire nel mondo, con la necessità che ogni sua azione, traguardo creazione, sia sotto i riflettori dell’ammirazione di chi lo circonda. Se questa componente manca il narcisista crolla, si arresta. Certo a chi non piace l’ammirazione degli altri? Ma che cosa manca di “sano” in questa dinamica? Si proprio quell’essere animati dal piacere intrinseco del fare le cose, quello che Dimaggio chiama “avere le mani in pasta”, vivere la propria vita come una forma di “artigianato”. Il narcisista non riesce a sentirlo ed è su tale aspetto che si dovrebbe orientare principalmente una terapia efficace nei suoi confronti.

Per dirla semplice, la gioia di un bambino che mangia il primo gelato dell’estate non ha niente a che vedere con la dichiarata soddisfazione di un narcisista che ha raggiunto lo scopo fissato. E anche la delusione è di altra qualità. Il bambino chiuso in casa dalla pioggia è triste e sconsolato, il narcisista ostacolato è rabbioso e rivendicativo” (“I disturbi di Personalità – Modelli e Trattamento”, Dimaggio, Semerari – 2003).

Attraverso la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), terapia di elezione per i disturbi di personalità, è possibile aiutare il paziente a riconoscere i propri schemi interpersonali disfunzionali e trovare il modo di individuare e promuovere le parti sane e funzionali di una persona.

Lo scopo del trattamento? Restituirgli “il diritto alla vita”. Amo citare un mio paziente, avvocato di successo, in una posizione del tutto invidiabile, dopo una lunga e intensa terapia, mi raccontò della sensazione percepita durante una passeggiata tra la natura (lui che non usciva mai dal suo studio, ritenendo ogni distrazione una cosa superflua e futile) e che, rivolgendomi lo sguardo commosso e meravigliato come quello di un bambino mi domandò “ma allora questa è la vita?”.

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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