Ho scoperto di soffrire di un disturbo di personalità nel 2012, quando i social media non erano neppure l’ombra di ciò che sono oggi e non esistevano articoli online, neppure in inglese. È stato utile perché le uniche informazioni che avevo erano quelle, verificatissime, della struttura che mi seguiva. Vi racconto cosa è successo quando ho iniziato a portare l’argomento su Facebook e la mia esperienza con lo stigma.
Parlare di salute mentale fa ancora paura: la psicofobia
La psicofobia è la paura di impazzire ovvero di ammalarsi di una vera e propria malattia mentale; una fobia poco nominata rispetto ad altre più note come la paura degli spazi stretti o claustrofobia, degli spazi ampi o agorafobia, delle altezze o acrofobia, ma non per questo meno importante.
La paura della malattia mentale si traduce in sanismo, lo stigma verso chi soffre o è ritenuto soffrire di una malattia mentale.
Di salute mentale si parla sempre di più, ma questo non vuol dire che se ne parli meglio. L’aver sdoganato questi temi ha dato l’illusione che il tabù sia stato definitivamente superato quando, in realtà, stiamo grattando appena sotto la superficie. Proprio come per gli iceberg, il tema vero si nasconde in profondità.
La malattia mentale spaventa ancora tantissimo.
Se negli anni ’50 il brutto male era il tumore, la malattia mentale non aveva neppure quel nome in codice. Si finiva in manicomio per i motivi più disparati (anche prima) e lì la malattia, se di questo si trattava, non veniva curata bensì censurata, repressa, esasperata. Non se ne veniva fuori.
Poi ci sono stati i barbiturici, i primissimi psicofarmaci, e gli elettroshock, diventati famosi grazie alle pagine dei rotocalchi che diffondevano i dettagli delle disgraziate vite delle dive di Hollywood. Sembra un ossimoro ‘disgraziata diva’ eppure chi vorrà approfondire le storie di Marilyn Monroe, Judy Garland o Sandra Dee capirà che era una tragica realtà.
Nel 2015, quando ho iniziato a condividere i primi contenuti sulla mia esperienza di guarigione dal disturbo borderline, ancora non avevamo pagine, post e articoli sul tema e soprattutto nessuno aveva mai osato prima parlare di guarigione.
Chiarisco: non ero un genio del marketing né della comunicazione, per un caso fortuito ero guarita da una malattia mentale, cosa che io stessa credevo impossibile e ho semplicemente sentito la spinta a condividere la lieta novella.
Mi sono arrivati una quantità di insulti e aggressioni verbali, addirittura l’insinuazione che mi pagasse la struttura che mi aveva preso in cura per diffondere disinformazione al fine di reclutare più pazienti. A onor del vero, considerando il livello a cui si è spinto un certo influencer marketing, queste accuse avevano solo precorso i tempi, ma non era quello il caso.
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Le calunnie rivolte attraverso la mia pagina Facebook, ai professionisti che mi avevano presa in carico all’epoca erano arrivati ad un livello per il quale decisi di chiuderla dal giorno alla notte.
Ecco le premesse con le quali tutto è iniziato e soprattutto, ecco il livello di stigma nei confronti di chi, una decina d’anni fa, iniziava a portare i temi della salute mentale, della terapia strutturata, della diagnosi precoce, dell’accesso alle cure e soprattutto della guarigione, fuori dalla stanza di terapia.
I disturbi di personalità sotto la lente d’ingrandimento
Tra tutti i disturbi mentali quelli di personalità sono ritenuti tra i più spaventosi. Mi sono chiesta a lungo il motivo di questo astio che arriva a diventare vero e proprio odio e credo di essermi data una risposta.
Le persone a cui viene diagnosticato un disturbo di personalità sono considerate consapevoli della loro condizione, volutamente approfittatrici, potenzialmente pericolose ma soprattutto irrecuperabili. In altre parole incarnano perfettamente la figura del nemico. Il mostro vicino di casa dal quale imparare a proteggersi a ogni costo.
È un proliferare di (cito titoli realmente esistenti): “Il narcisista – come riconoscerlo e imparare a difendersi”, “Mi sono messo con una borderline?”, “L’antisociale vs il borderline”, e di associazioni tra disturbi e assassini o figure estremamente violente e controverse. Dalla presunta diagnosi di disturbo narcisistico e borderline di Filippo Turetta a quella di disturbo istrionico e borderline di Amber Heard, al disturbo narcisistico, ossessivo e paranoideo di Alessandro Impagnatiello.
Se fin dalla notte dei tempi la malvagità è stata associata alla pazzia, una certa moda comunicativa decisamente più recente, ha iniziato a far circolare la voce che anche altre caratteristiche umane (che di malvagio hanno poco o nulla) sarebbero riconducibili alle diagnosi psichiatriche. E come se non bastasse stanno dando l’illusione di poter fare l’associazione autonomamente ovvero di poter diagnosticare o autodiagnosticare questi disturbi senza passare per la consulenza con gli specialisti.
È un problema serio del quale mi ritrovo a parlare spesso con colleghi e colleghe creator che divulgano, proprio come me, sia come esperti per professione (professionisti dell’area psi), che come esperti per esperienza (ex pazienti).
L’influenza della diagnosi (o della mancata diagnosi) sulla quotidianità
Sono abbastanza serena nel dire che, se avessi ricevuto la diagnosi solo pochi anni dopo rispetto al 2012, quando online iniziavano a circolare indisturbati questi contenuti, avrei rischiato.
Rischiato di rifiutare la diagnosi, rischiato di pensare davvero di essere una persona pericolosa e indegna, rischiato di abbandonare la psicoterapia, rischiato di allontanare le persone per evitare di metterle in chissà quale pericolo, rischiato di condannarmi ad un’esistenza ancora più miserabile di quanto non lo fosse.
Grazie al cielo non è accaduto nulla di tutto ciò e ho potuto approcciare il tema dello stigma dopo aver seguito un percorso che non solo mi ha guarita dal disturbo di personalità, ma mi ha anche fatto l’inestimabile dono di rimettere insieme la mia identità frammentata e restituirmi integra alla vita!
La diagnosi è stata per me una liberazione, la cercavo ancora prima di sapere che esistesse una diagnosi in psicologia e psichiatria e mi ha aperto la porta della rinascita. È un diritto e quando c’è qualcosa di diagnosticabile va comunicato al paziente, proprio come si fa per qualsiasi malattia fisica. Questo è ciò in cui credo e che non smetterò mai di credere.
Il paziente psichiatrico ha la stessa dignità degli altri pazienti ai quali viene spiegata adeguatamente la diagnosi, le possibilità di cura, la prognosi – ricordando che il potenziale di guarigione non è mai quantificabile aprioristicamente.
La consapevolezza della propria condizione e delle prospettive, per altro, ha anche il potere di aumentare l’aderenza terapeutica e di chiarire a se stessi e alle persone care i perché e i percome di certi comportamenti.
Gli effetti dello stigma su chi soffre di un disturbo mentale
Gli effetti dello stigma possono aggravare notevolmente i sintomi del disturbo giacché la stigmatizzazione costringe ad affrontare pregiudizi e stereotipi che minano ulteriormente l’autostima e il senso di accettazione sociale.
È per questo che dicevo che, se avessi scoperto di avere un disturbo di personalità, anche solo pochi anni dopo, avrei rischiato di affrontare gravi conseguenze.
Lo stigma porta con sé sentimenti di solitudine, rifiuto, senso dell’abbandono, vuoto e indegnità. Tanti temono di essere giudicati o rifiutati a causa della loro condizione e per altrettanti non è timore ma realtà. Una percezione come questa, un vissuto come questo non può che impattare significativamente sulle relazioni interpersonali, compromettendo la fiducia e la capacità di stabilire legami.
Non lo dice nessuno nei contenuti che mettono in guardia i “sani” che le persone con un disturbo di personalità potrebbero avere problemi relazionali proprio per lo stigma che quei contenuti creano, vero?
Infine, lo stigma si può interiorizzare. È il caso di chi ha una psicopatologia e inizia a credere di sé ciò che ha imparato essere vero delle persone con malattia mentale: “sono pericoloso”, “sono incompetente”, “farebbero bene a stare lontani da me, sono solo un peso”. Questa percezione è in grado di far crollare un intero sistema ed è ciò da cui si cerca, tendenzialmente, di proteggere i pazienti quando non gli si comunica la diagnosi.
Gli effetti dello stigma sul contesto sociale dei pazienti
Da chi è composto il ‘contesto sociale’? Principalmente da due gruppi di persone: quelle più vicine, le persone care, e poi i conoscenti e tutti gli altri.
Nel primo caso, che potrebbe essere quello dei partner, i parenti, i figli, gli amici stretti, lo stigma potrebbe avere due ripercussioni: allontanare dalla persona con la diagnosi di disturbo di personalità perché si comincia a guardarla con occhi diversi, oppure stringersi a lei ancora di più perché si capisce che è vittima di una visione distorta della malattia. Sfortunatamente quest’ultima possibilità espone entrambe le parti a solitudine.
Solo due persone della mia famiglia hanno saputo che stavo facendo un percorso per una grave psicopatologia, ma sapendone poco o nulla non hanno forse neppure compreso a pieno la portata della diagnosi finché non è uscito il mio libro Crisi tempestose e non l’hanno letto. Questo ci ha protetti tutti, almeno in parte, ma non sempre le cose vanno così lisce. A tutt’oggi, dopo 10 anni dalla mia completa remissione, alcuni ancora non credono che si possa uscire dai disturbi di personalità e che io possa parlare davvero, come faccio, di salute mentale.
Nel secondo caso, quello delle persone che non hanno direttamente a che fare con i disturbi mentali e/o con persone che ne hanno, lo stigma può insegnare ad utilizzare i nomi delle malattie mentali e delle loro superficiali interpretazioni come aggettivi qualificativi.
Chiunque conosce o ha sentito qualcuno dire di qualcun altro che è depresso per dire che è triste, bipolare intendendo che cambia spesso umore, narcisista se ha manifestato alta autostima o ha perseguito i propri interessi, schizofrenico solo perché ha comportamenti strani o ossessivo compulsivo se ha la fissa di pulire e tenere in ordine.
Da un lato la banalizzazione e dall’altro odio e discriminazione, che sono le due facce della stessa medaglia. Le persone con disturbi mentali vengono considerate pericolose, spesso incompetenti, responsabile della loro malattia e imprevedibili.
Questo contribuisce a diversi tipi di discriminazione, ad esempio è molto difficile trovare lavoro se il datore viene a sapere che la persona ha una diagnosi psichiatrica, oppure si inizia a notare un cambiamento di atteggiamento in negativo se si viene a scoprire che una persona già assunta ha una diagnosi di questo tipo.
Promuovere la destigmatizzazione attraverso la comunicazione
Destigmatizzare significa destrutturare un pensiero molto radicato, e non è un risultato che si può sperare di ottenere dal giorno alla notte. Molti anni di ricerca sugli interventi anti-stigma hanno scoperto che quelli di successo:
- includono il contatto di persona: si devono incontrare i professionisti e coloro che portano le testimonianze, ma anche i video possono assolvere il compito se ben pensati.
- si concentrano su una serie di disturbi: non esistono solo la depressione e l’ansia o i discorsi generici sulle malattie mentali. Bisogna parlare anche di tutte le altre psicopatologie che, per mancanza di conoscenza, ancora generano paura o ribrezzo.
- coinvolgono la partecipazione di persone con “esperienza vissuta”. Era il 2016 quando ho organizzato il primo incontro pubblico a Milano, temevo non sarebbe arrivato nessuno e siamo finiti con le persone ammassate in strada per stare a sentire.
- individuano i gruppi che hanno una concentrazione maggiore di disturbi o dove la mancanza di ricerca di aiuto è più problematica (giovani, comunità prive di documenti, minoranze, carceri, comunità militari) e si impegnano ad ascoltare e condividere informazione anche su di loro per portare aiuto concreto.
- sono pensati per essere credibili e comprensibili per coloro che ascoltano. Il linguaggio usato deve essere fruibile senza perdere la sua scientificità
- devono durare diversi anni per essere efficace.
Dal 2015 al 2019, ho portato avanti un’associazione con la quale sono stata in molte città italiane a portare la mia testimonianza, e non ho mai smesso di farlo anche attraverso i social media. Quando i miei terapeuti mi hanno finalmente detto che ero fuori dai criteri diagnostici per il disturbo borderline ho pensato che avrei voluto essere per qualcuno la Federica della quale avrei avuto bisogno quando ero un’adolescente terrorizzata.
Da Padova a Monza, da Milano a Reggio Emilia, da Bologna a Belluno ho cercato di dare voce a chi una voce ancora non ce l’ha, di spiegare che quei comportamenti stigmatizzati non sono casuali, ma modi di manifestarsi di un disturbo che non sa ancora spiegarsi in altro modo.
Strategie di sopravvivenza collettive
La NAMI – National Alliance on Mental Illness americana dà alcuni suggerimenti per combattere lo stigma, e lo fa a partire da una raccolta di 9 consigli proprio di quegli esperti per esperienza che la ricerca considera necessari.
- Parlare apertamente di salute mentale, ad esempio condividendo la propria esperienza, anche online e sui social media.
- Educare se stessi e gli altri, rispondendo a percezioni errate o commenti negativi condividendo sia fatti che esperienze.
- Prestare attenzione al proprio linguaggio e alla scelta delle parole, ricordando alle persone che le parole contano.
- Incoraggiare l’uguaglianza tra malattie fisiche e mentali – fare paragoni con il modo in cui tratterebbero qualcuno con il cancro o il diabete.
- Mostrare compassione per chi soffre di malattie mentali.
- Essere onesti riguardo al trattamento: perché il trattamento della salute mentale va normalizzato al pari di altri trattamenti sanitari.
- Segnalare ai media l’uso di linguaggio stigmatizzante per presentare storie di malattie mentali.
- Scegliere l'empowerment rispetto alla vergogna: significa non lasciare che il pregiudizio e il senso di vergogna scoraggino il proprio percorso ma credere di avere il poter di agire nonostante gli eventi.
- Non nutrire l’auto-stigma nascondendosi dal mondo, al contrario cercare di fare l’esatto opposto, un passo per volta, per dimostrare a se stessi che si sta riprendendo ciò che lo stigma tende a togliere: la propria dignità e capacità di scelta.
Conclusioni
Le battaglie contro lo stigma e la psicofobia sono ancora lontane dall'essere vinte, ma il mio percorso personale è stato illuminante in questo senso. Sì, ho vissuto in prima persona l'impatto dello stigma associato ai disturbi di personalità e come questo stigma abbia influenzato non solo la mia vita, ma anche quella dei miei cari e il contesto sociale che mi circonda. Però ho sperimentato anche la differenza che hanno fatto le cure sia su di me che su coloro che ascoltano la mia storia.
Gli effetti dello stigma sono molteplici e devastanti. Porta isolamento, solitudine e un senso pervasivo di indegnità. Spinge le persone a nascondere la propria sofferenza anziché cercare aiuto, alimentando una cultura di silenzio e segretezza intorno alla salute mentale. Lo stigma può minare le relazioni interpersonali e sbarrare l'accesso alle cure adeguate.
Tuttavia, sono convinta che la destigmatizzazione sia possibile attraverso la comunicazione aperta, educativa e soprattutto etica. Ho sperimentato di persona il potere della condivisione delle esperienze e della diffusione di informazioni accurate sulla salute mentale.
Parlare apertamente e con coraggio della mia guarigione dal disturbo borderline è stato fondamentale per sfidare gli stereotipi e promuovere consapevolezza. Il processo è lungo e complesso, ma ogni piccolo passo conta. Continuerò a impegnarmi affinché nessuno debba più sentirsi solo o giudicato a causa della propria condizione, in un mondo dove la malattia mentale non sia più associata a paura o stigma, ma piuttosto a comprensione, sostegno e speranza.