Due studi coordinati dal gruppo di ricerca in Psichiatria dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Post-traumatic stress disorder among LGBTQ people: a systematic review and meta-analysis e Microaggression toward LGBTIQ people and implications for mental health: A systematic review, evidenziano come la teoria del minority stress sia una lente preziosa per comprendere le difficoltà psicologiche che le persone LGBTQIA+ affrontano a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere.
Secondo questa teoria, le minoranze nel contesto sociale, come la comunità LGBTQIA+, subiscono uno stress cronico dovuto a molteplici fattori, tra cui stigma e pregiudizi, discriminazione, violenza o minacce, internalizzazione del pregiudizio.
Questo fenomeno, nelle sue manifestazioni, viene considerato simile allo stress post-traumatico (PTSD, Post Traumatic Stress Disorder).
Il professor Gian Maria Galeazzi, responsabile del coordinamento dei due studi citati, afferma che bisognerebbe porsi l'obiettivo di garantire l'accesso a supporto adeguato, mentre a livello culturale, educativo e giuridico, quanto sia importante rafforzare le strategie contro la violenza, la discriminazione e lo stigma, soprattutto verso le persone transgender.
Abbiamo approfondito il tema della salute mentale e dell'importanza che può avere per la comunità LGBTQIA+ con Federico Dibennardo: psicologo, formatore e divulgatore, conosciuto sui social come @strizzacervelli_.
Federico, parlaci di te, della tua formazione in ambito psicologico e del tuo lavoro
Mi appassiono moltissimo alla psicologia da quando sono piccolissimo. A 14 anni apro un blog dove rispondo, in qualità di adolescente, a madri di altri adolescenti aiutandole a comprendere meglio le difficoltà della nostra generazione.
Mi laureo in Psicologia a Parma, prima alla triennale e poi alla magistrale. Nel mentre lavoro al servizio di telefono amico LGBTQIA* di Bologna e faccio formazioni nelle scuole sull’identità sessuale.
Successivamente inizio la specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e, allo stesso tempo, lavoro come clinico e formatore per diversi centri; inizio, poi, a lavorare nella ricerca per l’università di Parma e altri enti di formazione e ricerca.
Perché hai scelto di specializzarti nel supporto a persone della comunità LGBTQ+?
Credo che ogni persona che si occupi di un lavoro di cura inizi questo mestiere per motivazioni estremamente personali.
Banalmente si vorrebbe essere quel professionista preparato e accogliente che non abbiamo avuto nella nostra vita quando ne avremmo avuto bisogno.
Con il tempo mi sono accorto che è un ambito ancora poco coltivato nel mio settore e mi sono sentito spronato a continuare per aiutare la mia scienza a crescere e le persone a trovare un supporto competente e informato.
C’è ancora tanto da fare per progredire come società e come comunità scientifica e spero di lasciare un posto migliore a chi mi seguirà.
Secondo te, oggi, i pazienti della comunità LGBTQIA+ si sentono più ascoltati?
Credo che nessuno si senta “ascoltato” per davvero nell’ambito sanitario. Immagino e noto che ci si senta meno giudicati, probabilmente più accolti e confortati ma l’ascolto è una dimensione ancora difficile da gestire per le professioni sanitarie.
Ascoltare significa concedere il beneficio del dubbio su alcune questioni, lasciare alle persone il controllo della loro vita e della loro salute fornendo un servizio di supporto e non di guida.
La psichiatria ha ancora addosso il metodo medico paternalista in cui non la cura non è proposta ma “prescritta”; stiamo facendo quello che possiamo per spostare questo metodo di cura ma credo che serva ancora molto lavoro per far sentire le persone realmente “ascoltate”.
Parlando di società, tessuto sociale e atteggiamento nei confronti di persone LGBTQIA+, i passi in avanti per uscire dallo schema dell’eteronormatività sono concreti?
Assolutamente sì: la legittimazione sociale e i progressi, anche se modesti, avuti nel campo dei diritti civili hanno anzitutto dato accesso alla comunità ad una vita degna di essere vissuta.
Questo comporta un minor impatto negativo nella vita della persona quando entra nella consapevolezza della propria sessualità, una esplorazione più serena e coming out più tranquilli, soprattutto “sicuri” in casa.
La salute mentale è ancora particolarmente ancorata al supporto familiare e alla fragilità del contesto sociale.
Vivere più sereni, sentire di avere una vita con maggiori prospettive è associato a un maggiore benessere oltre che essere estremamente protettivo contro l’esordio della sofferenza mentale.
Credi che, perlomeno in Italia, in base alla tua esperienza, lo stigma sociale sia diminuito?
Non abbiamo ancora sufficienti studi per poter affermare con certezza che lo stigma sia diminuito ma come clinici possiamo notare quanto sia cambiata la domanda dell’utenza e questo è un dato interessante su cui riflettere.
Quando ho iniziato a fare counselling nel telefono amico, 10 anni fa, le richieste che venivano fatte erano di supporto all’accettazione: l’idea di scoprire la propria sessualità spaventava, il giudizio sociale era percepito come opprimente.
Oggi la richiesta è diversa, spesso il coming out è un elemento più scorrevole nella vita di una persona, soprattutto se parliamo di orientamento sessuale. Sono minori le richieste legate all’accettazione di sé, le persone faticano meno ad aprirsi.
Tuttavia evolvendo, come società, emergono nuove frontiere di stigma: la Transfobia, ad esempio, è l’enorme problema del nostro periodo storico, a mio avviso.
La parte più anziana della nostra società fatica ad accettare i nuovi livelli di complessità identitaria che stiamo raggiungendo come specie: il superamento del binarismo di genere, la necessità di parlare di identità svincolate dal genere assegnato alla nascita.
Questi temi sono ancora motivo di scontro, non solo generazionale ma anche scientifico.
Potresti raccontarci quali sono le maggiori difficoltà e ostacoli affrontate dalle persone LGBTQIA+ che si rivolgono a te?
Ci tengo a precisare che malgrado io lavori moltissimo sulle tematiche LGBTQIA* la mia utenza è molto varia, e io come professionista sono formato e mi formo per curare la salute mentale in tutte le forme possibili.
Poi, mi occupo precisamente di stigma, quindi la maggior parte delle persone che si rivolgono a me sono persone che hanno subito nella loro vita livelli di discriminazione estremamente forti, fuori e dentro il contesto familiare; lo stigma sul proprio corpo, sessualità ma anche genere ed espressione di genere.
Spesso chi intraprende un percorso con me mi chiede un aiuto concreto per gestire il giudizio sociale e tutte quelle forme sintomatiche che incontra nella sofferenza psicologica: ansia, ansia sociale, disturbi del comportamento alimentare e altro.
In generale la difficoltà maggiore, se dovessi riassumerla in poche parole, è quella di imparare a sopravvivere al giudizio altrui, a renderlo meno impattante nella propria vita, come si può.