Essere genitore, o sognare di diventarlo, quando si ha una diagnosi psichiatrica è un po’ come giocare a un videogame in modalità 'livello impossibile'. Il secondo prima si gestiscono le crisi e quello dopo ci si chiede: 'mio figlio potrà mai capirmi davvero?', 'ma potrebbe diventare come me?', 'sono stata un'egoista a metterlo al mondo?' e ancora 'sarò la causa della sua infelicità?'. È una sfida, è un desiderio, è un tabù, è un pieno di domande che, in qualche modo, siamo in molti a condividere.
Essere caregiver e in cura: il doppio ruolo che non si riconosce
Quanto è difficile parlare di genitorialità! Da un lato una narrazione sulle madri ancora troppo vicina alla famiglia da Mulino Bianco, dall’altro il buco nero nel quale continua ad essere risucchiata la figura paterna - tirata tra il ‘mammo’ e il ‘non pervenuto’. Tra pancioni, fiocchi e pannolini che le pubblicità mostrano sempre puliti, culle, corsi di yoga e passeggini che si aprono con una mano sola, istinto materno, allattamento-tutti-i-gusti-più-uno e pacifici putti addormentati, parlare di malattia mentale sporca irrimediabilmente la perfezione di questo quadretto.
Che succede dunque quando a questa rappresentazione già fragile si sovrappone una diagnosi psichiatrica?
Se essere genitore è già un’esperienza mal rappresentata nella quale in troppi fanno fatica a riconoscersi – con le mille difficoltà del caso - essere genitore e paziente allo stesso tempo significa doversi prendere cura di qualcuno mentre il proprio sistema nervoso è già pesantemente provato, mentre si gestisce una terapia farmacologica, mentre si è in cura, mentre si soffre e si ha paura. È come cercare di tenere in piedi una casa che scricchiola, consapevoli che quel suono potrebbe essere solo uno scricchiolio o il crollo della struttura. Solo chi la vive può capire la difficoltà di interpretare due ruoli così complessi, senza una vera rete che ne riconosca l’impegno.
Ogni giorno, è un continuo oscillare tra il desiderio di essere un buon genitore e la necessità di prendersi cura di sé stessi, senza una guida, senza una mappa. Soli.
La solitudine dei genitori con patologie mentali: quando il supporto manca
Per chi convive con una diagnosi psichiatrica, a maggior ragione, essere genitore diventa una sfida solitaria o con il solo supporto di famiglie che si caricano un’enorme peso sulle spalle. Si parla spesso di supporto alla genitorialità, ma purtroppo fa acqua da tutte le parti anche quando si tratta di genitori funzionali. In quanti sanno che la transizione genitoriale è una condizione di rischio per disturbi depressivi, ansiosi e lo stress genitoriale? In quanti conoscono le conseguenze della depressione post-partum paterna? In quanti saprebbero a chi rivolgersi in caso di psicosi post-partum?
Quando si ha una diagnosi psichiatrica, il supporto diventa spesso un miraggio: poche strutture sono attrezzate per accompagnare chi si trova a gestire, insieme al proprio percorso terapeutico, anche il difficile ruolo di genitore. In aggiunta l’aiuto non arriva tempestivo: dormire, lavarsi, le mille visite dei piccoli, far partire correttamente l’allattamento o interromperlo, la gestione di fratelli e sorelle se ce n’erano, il rientro al lavoro, l’inserimento al nido… Questo e mille altri aspetti della quotidianità genitoriale sono ad esclusivo appannaggio di genitori che, quando c’è di mezzo una diagnosi psichiatrica, spesso hanno anche gravi difficoltà di stabilità economica.
L’isolamento è una realtà quotidiana.
A questo aggiungiamoci che chi soffre di patologie mentali si ritrova spesso a censurare i propri pensieri, nel timore di non solo di essere giudicato ma anche di vedere messa in dubbio la propria capacità di essere genitore.
Gli attuali sistemi sanitario e assistenziale faticano a supportare chi ha una diagnosi e ha o sogna una famiglia. E così, questi genitori affrontano la propria solitudine, costruendo come possono un equilibrio che tenga insieme il bisogno di assistenza e la voglia di essere presenti per i propri figli.
Trasmettere la malattia: un’eredità da incubo
Esiste una paura che molti genitori con patologie mentali conoscono bene: quella di trasmettere la malattia ai figli. La possibilità che i propri figli possano vivere le stesse difficoltà diventa un pensiero costante, un peso che nessuno riesce davvero ad alleggerire.
Nonostante nessuno abbia ancora scoperto un gene della malattia mentale, e il massimo che si sappia è che si potrebbe avere una vulnerabilità a sviluppare certi disturbi, l’adagio ‘se io ce l’ho potrei passarlo a te’ è una convinzione cui il genitore o il futuro genitore non si sente di condannare il figlio.
Poco importa se una buona parte del nostro potenziale genetico non si esprimerà mai perché la genetica non è rigida ma si adatta alle condizioni in cui viviamo, perché il timore di questa eredità è un pensiero che si insinua nei momenti più inaspettati e può diventare panico. È anche una paura difficile da comunicare agli altri dai quali si temono incomprensione e giudizio o, peggio, la conferma di essere degli egoisti a pensare di mettere al mondo degli infelici.
Avere paura di trasmettere la propria malattia, nella sua disfunzionalità, cela un grande amore, significa voler proteggere i propri dal dolore che si conosce troppo bene, al punto da essere disposti a rinunciare a loro e sopportare questa rinuncia anche per tutta la vita.
Rendere i figli delle vittime: sbloccata una nuova paura
Un’altra paura che molti genitori con diagnosi psichiatriche conoscono è quella di fare del male ai propri figli senza volerlo. Non solo quella di infliggere un dolore fisico, ma anche del timore che le proprie crisi e i propri momenti difficili possano lasciare segni emotivi sui figli, trasformandoli in “vittime” delle fragilità genitoriale.
È una paura che si presenta in modo diverso per ciascuno, ma che ha un fondo comune: il desiderio di proteggere i propri figli da tutto, anche dalle proprie difficoltà. La consapevolezza di avere una malattia mentale aggiunge alla genitorialità un senso di responsabilità che talvolta è paralizzante. Ogni crisi, ogni momento di difficoltà viene vissuto come un possibile trauma che i figli potrebbero ricordare.
Questa paura spesso porta a un eccesso di autocontrollo, a una sorveglianza costante di ogni propria reazione emotiva, alla ricerca di controllare anche ciò che non è controllabile, per evitare che le proprie fragilità diventino un peso per i figli.
Essere all’altezza del proprio sogno: desideri e ostacoli
Essere genitori è un sogno che molti, nonostante la diagnosi, continuano a coltivare. Il desiderio di avere una famiglia non si spegne di fronte alla malattia, anzi: a volte è proprio questo desiderio a dare la forza di affrontare le difficoltà quotidiane. Eppure, questo sogno si scontra con ostacoli che spesso sembrano insormontabili.
Quella diagnosi che dovrebbe essere spiegazione, bussola per le cure, prognosi e speranza, diventa una lente che distorce ogni pensiero, anche nei professionisti e negli operatori che dovrebbero invece sostenere attivamente la famiglia fin dal concepimento. Ma c’è anche un altro ostacolo, più sottile: il giudizio sociale, che spesso valuta ogni azione dei genitori con patologie mentali come se fossero test da superare. È intuitivo che questo approccio schiacci l’autostima, specialmente quando preme l’acceleratore sul senso di colpa, di inadeguatezza, sul classico ‘hai voluto la bicicletta ora pedali’.
Questo desiderio di essere all’altezza diventa una lotta quotidiana, in cui si cerca di dimostrare, soprattutto a sé stessi, che la diagnosi non determina tutto, che è possibile essere genitori amorevoli e presenti anche quando la propria mente affronta delle difficoltà.
Il problema maggiore è che a fronte di un’enorme pressione sia interna che sociale, non vengono dati gli strumenti né per gestire l’essere genitori né per come rapportarsi al figlio che cresce con un genitore con psicopatologia, e questo sì che può avere importanti ripercussioni.
Chi decide chi è idoneo a essere genitore?
Quando si parla di salute mentale e genitorialità, emerge sempre un vecchio pregiudizio, un bias che serpeggia nei corridoi di ospedali, negli studi degli specialisti e, peggio, nelle conversazioni quotidiane: il sanismo. È quel tipo di giudizio implicito che dice, in modo quasi sussurrato, che solo chi è “perfettamente sano” può essere un buon genitore. Ma chi lo decide? Chi stabilisce i confini di questa cosiddetta “idoneità”? E cosa vuol dire davvero “perfettamente sano”?
Il sanismo si insinua sotto forma di dubbi non richiesti, sguardi di disapprovazione e battute dette a mezza voce. È il “ma sei sicuro di poter crescere un figlio?” camuffato da preoccupazione, che in realtà è una sentenza. È l’idea che una diagnosi psichiatrica riduca una persona a un rischio vivente, un rischio che sarebbe “meglio non correre.” Di fatto, è come se chi soffre di un disturbo mentale dovesse dimostrare di essere una versione migliorata di sé stesso per poter sognare, persino prima di poter agire.
Ecco il paradosso: chi vive con una diagnosi psichiatrica viene monitorato, valutato, quasi “scansionato” in ogni comportamento, come se l’avere una malattia mentale fosse un motivo sufficiente per sconsigliare l’esperienza genitoriale. Eppure, nessuno può garantire che, anche chi non ha alcuna diagnosi, sia immune dalle difficoltà o dalle fragilità che ogni genitore si trova ad affrontare. La “perfetta stabilità” è un’illusione, ma quando hai una diagnosi psichiatrica, sembra che diventi un prerequisito.
Forse il sanismo deriva dal timore di ciò che non si conosce, dall’incapacità di vedere oltre l’etichetta diagnostica, come se quella fosse una finestra aperta su ogni comportamento e azione futura. Ma la verità è che anche i genitori con patologie mentali, proprio come chiunque altro, sanno coltivare amore, accudimento e resilienza, e spesso sviluppano una consapevolezza unica delle proprie difficoltà, che li porta a un livello di attenzione quasi “scientifico” nei confronti del benessere dei propri figli.
Il vero problema è che, anziché offrire supporto o risorse, si preferisce imporre una barriera invisibile: l’idoneità presunta. E così, il sanismo finisce per essere un doppio peso. Non solo un genitore deve fare i conti con le sue difficoltà, ma deve anche dimostrare continuamente agli altri di essere all’altezza, come se si trovasse costantemente sotto esame.
Alla fine, il sanismo è un giudice muto che non ha voce, ma che pesa. È un filtro che rende la società cieca alle sfumature, alla capacità di adattamento e alla forza di chi, pur con una diagnosi, lotta per dare amore e cura. Eppure, la realtà è questa: nessuno può giudicare i sogni altrui, e l’unico modo per ridurre i rischi è offrire supporto, non dubbi.
Conclusioni
Essere genitori con una diagnosi psichiatrica significa abitare tra ciò che sembra inaccessibile e ciò che, nonostante tutto, si sogna di raggiungere. È un percorso fatto di equilibri fragili in cui ogni passo richiede una dose di coraggio che troppo spesso viene data per scontata.
Sarebbe bello dire che la società sta cambiando, che le reti di supporto sono pronte a raccogliere i bisogni di questi genitori e delle loro famiglie, ma ancora non ci siamo. Tuttavia, qualcosa di fondamentale emerge dalla narrazione di chi vive queste sfide: l’incapacità ad arrendersi, il continuare a chiedere aiuto, una consapevolezza che diventa strumento di auto-cura laddove le cure necessarie non arrivano, un impegno costante a fare del proprio meglio per proteggere e accudire, nonostante le ombre della psicopatologia, dello stigma e dell’abbandono.
Non esiste un genitore perfetto – e questo vale per tutti, indipendentemente dalle diagnosi. Essere genitori è, per definizione, un’esperienza che si costruisce giorno per giorno, imparando dagli errori, cercando soluzioni nuove e, a volte, semplicemente accettando di essere umani.
In fondo, se c’è un diritto che ogni persona dovrebbe avere, è quello di sognare la propria famiglia (qualunque essa sia e chiunque essa comprenda) e di creare relazioni che abbiano il sapore dell’autenticità, senza il peso del giudizio altrui.
La speranza, allora, è che un giorno, forse non troppo lontano, il valore di un genitore non sarà più misurato dall’assenza di difficoltà ma dalla profondità dell’amore e della cura che sa offrire.