Dal Buio alla Luce: Il Percorso di Guarigione dal Disturbo Borderline

Federica Carbone | Autrice

Ultimo aggiornamento – 29 Maggio, 2024

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Se avessi avuto un euro per tutte le volte che ho sentito dire che dal disturbo borderline di personalità non si può guarire (forse) sarei ricca. Non posso biasimare chi lo pensa, del resto è quello che credevo io stessa. Eppure quella sulla guarigione è stata la prima domanda che ho posto al mio psichiatra: “ma se ne esce?”. Come sarebbe andata se quel giorno mi avesse risposto di no non posso saperlo, in compenso ho intrapreso un percorso che mi ha lasciata con più di qualcosa da raccontare!


Capire il disturbo borderline di personalità

TW: SI MENZIONANO IL SUICIDIO E L’AUTOLESIONISMO

Cos’è il disturbo borderline di personalità? Bella domanda. 

Sul piano tecnico dovrei rispondere che è una condizione psicopatologica ovvero una malattia mentale, codificata nel 1938 che però all’epoca aveva un’identità molto meno chiara e definita rispetto ad oggi che è il disturbo di personalità più studiato in assoluto. 

Cercando su Google si aprono in una frazione di secondo migliaia e migliaia di titoli che, una volta aperti, solitamente iniziano con una lista di sintomi e criteri diagnostici dal DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Questo librone da più di mille pagine è una sorta di grosso bignami delle malattie mentali, creato dall’American Psychiatric Association, ed è uno degli strumenti che gli psichiatri usano per diagnosticare. 

Citando questo manuale il disturbo borderline di personalità è “un pattern (uno schema) pervasivo (che si allarga a più ambiti di vita della persona) di instabilità nelle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta (ma si può diagnosticare anche molto prima durante infanzia e adolescenza) ed è presente in svariati contesti, come indicato da 5 o più dei seguenti elementi

  1. Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono.
  2. Un pattern di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzato dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione.
  3. Alterazione dell’identità: immagine di sé o percezione di sé marcatamente e persistentemente instabile.
  4. Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (per es., spese sconsiderate, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate).
  5. Ricorrenti comportamenti, gesti o minacce suicidari, o comportamento automutilante. 
  6. Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (per es., episodica intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore e soltanto raramente più di pochi giorni).
  7. Sentimenti cronici di vuoto.
  8. Rabbia inappropriata, intensa, o difficoltà a controllare la rabbia (per es., frequenti accessi di ira, rabbia costante, ricorrenti scontri fisici). 
  9. Ideazione paranoide transitoria, associata allo stress, o gravi sintomi dissociativi.

Vissuto da dentro il disturbo borderline è un caos infinito, una massa informe, un labirinto, ma dov’era l’entrata? La mente sembra nemica e quando non è lei gli altri sembrano nemici e quando non sono loro è l’universo a sembrare alieno, o forse l’alieno sono io? e così via; entrando e uscendo da momenti di maggior malessere a momenti in cui non si sta poi malissimo ma neppure bene. 

La paura, anzi il terrore della solitudine, dell’abbandono e del vuoto costringono a trasformarsi in appendice di qualcuno che prima o poi si stancherà, stremato, di quella bisognoso di presenza e rassicurazione. 

Secondo l’ICD – International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il disturbo borderline sarebbe una sottocategoria del “disturbo di personalità emotivamente instabile”. Sarebbero, infatti, impulsività, instabilità e mancanza di autocontrollo la base della condizione che diventa il burattinaio (il disturbo) che tira i fili del burattino (la persona). 

Convivenza, gestione o guarigione?

È comprensibile che per tanti anni si sia pensato al disturbo borderline o, meglio, a chi ne soffre come una persona irrecuperabile. Sembra impossibile riuscire a liberarsi da una condizione come questa, specialmente quando ancora oggi facciamo fatica ad accettare che la malattia mentale non abbia nulla a che fare con la forza di volontà. 

Il percorso di consapevolezza che ci sta portando verso lo smantellamento di questa visione delle psicopatologie, che non sono scelte, inizia con la parola: convivenza.

“Non si guarisce si può solo imparare a conviverci”. Quando le persone mi scrivono riportando questa frase da parte dei loro curanti (sempre meno per fortuna) mi viene da sorridere. Chi soffre di disturbo borderline ci sta già convivendo, non c’è bisogno di un permesso o di una validazione esterna per continuare a farlo. Se la persona si è rivolta ad un professionista è perché questa convivenza non va bene e ci si vuole liberare del coinquilino.

“Non si guarisce si può solo imparare a gestirlo”. Qui c’è già un salto in avanti, si passa infatti da una sorta di rassegnazione all’offerta di strumenti utili a tenere a bada la sintomatologia. 

“Non è una garanzia ma è possibile guarire”. Ecco, questo è l’ultimo traguardo, quello più realistico, quello che la scienza degli ultimi trent’anni ha continuato a validare: la guarigione (in inglese recovery) è possibile, non è una garanzia proprio come non lo è da qualsiasi altra malattia, ma esiste. 

Per altro, per il disturbo borderline la prognosi è anche decisamente favorevole.  

Cosa significa guarire da un disturbo di personalità

Fare esperienza dello stare bene. Un benessere prolungato e non solo una pausa dallo star male. Ho un ricordo molto vivido della prima volta che dissi, durante uno dei gruppi di terapia: ‘io sto bene’

Ho avuto per un momento gli occhi puntati addosso, e mesi dopo una compagna mi disse che anche lei aveva avuto una svolta nella terapia proprio in quel momento. Come dire ‘ah, ecco! Questa cosa nuova che sto sentendo è ‘stare bene’”

Sperimentare il benessere è lo spartiacque tra il prima e il dopo. 

La dicitura stessa ‘disturbo di personalità’, indica che c’è qualcosa che disturba la naturale evoluzione della personalità, e non che la personalità sia intrinsecamente e irreparabilmente sbagliata. Questo qualcosa si struttura già durante infanzia e preadolescenza, è impossibile quindi per la persona, distinguere tra la propria personalità prima e dopo.

A differenza di altre condizioni, come il raffreddore o una gamba rotta, per i quali si sa bene com’è guarire – smettere di starnutire e ricominciare a muovere la gamba senza dolore – il disturbo di personalità era già lì quindi ‘cosa potrà mai significare non averlo? Forse non sarò più io?’.  

In realtà, guarire non significa non avere più una parte di sé ma accoglierne una nuova. Non ci si divide, non ci si abbandona, bensì ci si moltiplica e in quel moltiplicarsi ci si trova. 

Quindi si può sperare di non avere più paura dell’abbandono? Sì.

Avere relazioni stabili e soddisfacenti? Sì. 

Avere un’identità integra e sapere chi sono? Sì. 

Smettere di struggersi per il senso di vuoto? Sì. Quel vuoto diventerà spazio. 

Smettere di agire impulsivamente? Se con questo si intende smettere di avere agiti potenzialmente pericolosi per cercare di gestire un’emotività dirompente e insopportabile, sì. 

Non stare mai più male? No, questo no. La guarigione non è un miracolo che cancella il lutto, l’ansia, l’ingiustizia, la tristezza, la guerra, il precariato, la fame nel mondo. La sofferenza è un’esperienza umana, non una malattia quindi ci tocca e continuerà a farlo.

Il percorso per arrivare alla guarigione

I sei approcci risultati superiori rispetto ai trattamenti abituali (per ora) sono: 

  • la terapia dialettico comportamentale (DBT)
  • il trattamento basato sulla mentalizzazione (MBT)
  • la Schema Therapy
  • la psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP)
  • l’addestramento dei sistemi (reti di relazioni) alla prevedibilità emotiva e problem solving (STEPPS)
  • il General Psychiatric Management (GPM). 

Tutti e sei questi protocolli di trattamento hanno dimostrato che ad oggi il disturbo borderline di personalità è un disturbo curabile; non trattabile ma proprio curabile!


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Lo scoglio da superare però è quello dell’accesso alle cure. La stragrande maggioranza di queste terapie necessita di un’équipe multidisciplinare e le strutture tendono a non avere fondi da investire. Laddove i fondi ci fossero poi si tratta quasi esclusivamente di centri in grandi città che costringono i pazienti di zone periferiche o comuni più piccoli a spostamenti importanti.

Nel mio caso, ho avuto l’enorme opportunità di seguire un protocollo specifico, strutturato che non figura tra questi sei. Si chiama GET – Gruppi Esperienziali Terapeutici, pensatelo strutturato come un corso universitario triennale. 

Immaginate le fasi come gli anni di studio: primo, secondo e terzo anno erano la fase 0, la fase 1 e la fase 2. In ognuna di queste fasi c’erano delle lezioni (gruppi) da seguire: il gruppo focalizzato sulla crisi, pianificazione, attivazione emotiva, attivazione corporea, metodi attivi e dinamiche di gruppo. Tutto questo con un tutor (psicoterapeuta) disponibile 24 ore al giorno, 7 giorni la settimana.

L’importanza della rete sociale in questo processo

Quando ho saputo di cosa soffrissi ho allontanato tutti. È la verità. Mi sono chiusa in me stessa perché la malattia mi fagocitava e io avevo bisogno di ogni boccone di energia rimasta per curarmi. 

Stare con gli altri è un grande aiuto, ma una fonte altrettanto grande di stress quindi mi sono trovata a dover scegliere accuratamente chi tenere a fianco a me e quali relazioni mettere in pausa. Alcune di queste le ho perse, la pianta non ha retto; altre nuove sono nate nel corso degli anni a venire. 

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La rete sociale però, nonostante questo allontanamento necessario, non è venuta meno perché nella terapia di gruppo che ho seguito, ho avuto tantissime compagne sia a sostenermi che a sfidare i miei limiti, e a volte superarli, altri rafforzare i miei confini. 

La presenza dell’altro non va data per scontata, alcune persone iniziano il percorso mentre sono ancora in famiglia, tante altre quando sono già fuori di casa e stentano ad avere relazioni. Non tutte troveranno un gruppo nel loro percorso terapeutico, a differenza di ciò che la ricerca sta documentando e restituendo da tanti anni, cioè che per coloro che hanno un disturbo di personalità non restare soli è fondamentale per guarire.

Anche chi resta però può avere conseguenze sulla sua salute mentale, delle quali prendersi cura. Ecco come è nata la NEA.BPD, un’associazione che ha creato dei gruppi di formazione e supporto per i familiari traducendo la terapia DBT in un percorso chiamato Family Connections

Qualcosa del genere dovrebbe essere portata anche sul posto di lavoro e nelle scuole. Non tanto o non solo per spiegare che certi comportamenti non sono frutto della volontà ma sintomi e quindi spiegare come interpretarli, ma soprattutto per creare una condizione nella quale la persona in recovery (che sta facendo un percorso di guarigione) sia il più possibile alla pari con gli altri. 

I social possono essere un mezzo per diffondere queste informazioni e creare una base comune di consapevolezza: attenzione, dunque, a ciò che si legge, si crea, si condivide.

Miglioramenti e ricadute: muoversi a passo di gambero

Si possono avere delle ricadute? Certamente.

Il mio psichiatra lo chiamava il passo del gambero. Ci spiegava che i gamberi fanno un passo avanti e due indietro, poi due avanti e uno indietro, poi tre avanti e un altro indietro. Quel che voleva dire è: 1) l’importante è muoversi, 2) ogni passo indietro serve a confermare che tutti gli altri erano in avanti.

In quest’ottica la ricaduta non è un fallimento ma una parte fisiologica del percorso. E non è una condanna ma un’opportunità. 

Portare la ricaduta in psicoterapia permette di individuare e analizzare aspetti nuovi, accedere a nuove prospettive, sbloccare i livelli successivi di consapevolezza. 

Riflessioni sulla vita dopo la recovery

Sono dieci anni che non ho più il disturbo borderline di personalità. La mia cartella clinica è depositata in Regione Lombardia insieme a quelle di tante altre compagne di percorso che sono uscite dal disturbo proprio come me. 

Alcune di loro sono diventate medici, assistenti sociali, coordinatrici di comunità, OSS, altre sono madri, segretarie d’azienda, make-up artists. La loro vita ha smesso di essere definita dalla malattia, è diventata degna di essere vissuta a prescindere da questo unico aspetto. 

Una volta guariti sì che c’è un prima e un dopo! 

Il mio dopo più grande è aver imparato quanto si può ottenere, anno dopo anno, una volta scongelato quel nucleo di dolore. Ogni volta che ho aperto una porta di maturazione mi sono detta “ma cosa può esserci più di così?!” e continuo, ciclicamente a chiedermelo. Vuol dire che vado avanti.

Ho imparato che non c’è limite al benessere, a volte forse lo si dimentica presi dalle mille cose, dai mille stimoli quotidiani, dalle lamentele spesso lecite. A volte lo si dimentica perché la vita è imprevedibile, dà e toglie. A volte si continua a camminare come un gambero, magari senza ricadute nel disturbo ma comunque cercando di capire se la direzione è quella giusta perché bisogna imparare a fidarsi di sé. 

Se però dovessi dire qual è uno degli indicatori maggiori della mia recovery, credo sia il fatto di essermi affezionata a questo disturbo, di non avere mai voluto relegarlo ad una posizione marginale della mia vita per far finta che non ci sia mai stato. 

È stato parte di me, sono scappata, mi sono fermata, l’ho guardato in faccia, l’ho rinnegato, l’ho combattuto, mi sono fermata di nuovo, l’ho ascoltato, ho capito, mi sono sentita impotente, ho pianto, gli ho dato un nuovo significato, mi sono liberata, l’ho liberato. 

Conclusioni

Dopo anni di percorso intenso, dentro e fuori la terapia, posso dire che il disturbo borderline di personalità non mi definisce più. La mia storia, insieme a quella di molte altre compagne di viaggio, dimostra che la guarigione è possibile e che la vita dopo la recovery può essere piena di significato e soddisfazioni.

Inizialmente, ho dovuto fare i conti con la paura dell'abbandono e del vuoto interiore, ma anche grazie alla presenza empatica di alcuni individui preziosi ho superato quei momenti difficili.

La terapia di gruppo è stata un punto di svolta fondamentale. Ho trovato sostegno, sfide e nuove prospettive, che hanno contribuito in modo significativo alla mia guarigione. Essere parte di una comunità terapeutica ha rappresentato un importante tassello nella mia strada verso il benessere emotivo.

Riflettendo sulla mia esperienza, sono consapevole dell'importanza di estendere questo sostegno agli altri.

Vorrei concludere sottolineando che la recovery non è uguale per tutti, e non è una meta, ma parte del percorso di vita; c’è tanto altro dopo. Ogni passo avanti, anche se a volte accompagnato da piccole ricadute, è un'opportunità per imparare, crescere e rafforzare la propria resilienza.

La mia vita dopo la guarigione è caratterizzata dal fatto che so chi sono e dalla fiducia nelle mie potenzialità, soprattutto quelle che ancora non so di avere. Ho imparato non senza fatica, ad accogliere ogni parte di me, comprese le esperienze passate, comprese le parti più ostiche o affilate. 

Sto imparando sempre di più a stare nel presente, sapendo che la guarigione è possibile e che voglio condividere questa possibilità con tutti. Il cammino continua, un passo alla volta.

Federica Carbone | Autrice
Scritto da Federica Carbone | Autrice

Scrivo di salute mentale dal 2015 quando, per prima in Italia ho iniziato a parlare di guarigione dal disturbo borderline di personalità come ex paziente. Questo mi ha permesso di attirare l'attenzione dei professionisti che mi hanno invitata a portare la mia testimonianza in giro per il Paese.

Le informazioni proposte in questo sito non sono un consulto medico. In nessun caso, queste informazioni sostituiscono un consulto, una visita o una diagnosi formulata dal medico. Non si devono considerare le informazioni disponibili come suggerimenti per la formulazione di una diagnosi, la determinazione di un trattamento o l’assunzione o sospensione di un farmaco senza prima consultare un medico di medicina generale o uno specialista.
Federica Carbone | Autrice
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