Gentilissima Utente,
la tua domanda è di estremo interesse, in quanto consente di dibattere il concetto, non sempre ovvio, di
resistenza all'insulina da parte di un organismo.
La nozione base risulta essere nella scarsa sensibilità delle cellule dell'organismo all'azione e alle capacità dell'
Insulina.
Segue, a tale causa, l'effetto che il
glucosio non venga assorbito in maniera funzionalmente adeguata al livello che ci si aspetterebbe per il valori di
insulinemia.
Cosa succede allora? Cosa succederebbe in una qualunque fabbrica di fronte ad una richiesta di mercato alta (si legga in questo esempio:
glicemia alta)?
La dirigenza non farebbe altro che disporre un aumento della quantità di prodotto da immettere sul mercato.
Ecco allora che il
pancreas reagisce aumentando la quantità di Insulina prodotta al fine di poter smaltire l'
iperglicemia.
Questo compenso è valido? Si può affermare che di certo è funzionalmente valido ai fini metabolici e ciò, anche per anni, riesce a sopportare e supportare iperglicemia.
In buona sostanza, il pancreas "
capisce" che per avere una glicemia "
giusta" occorre una maggiore quota di insulina e tale surplus lo produce.
Tutto bene dunque? Non è così, purtroppo.
Il perchè di questo vige nel fatto che l'insulina è pur sempre un
ormone.
Come ogni ormone, l'insulina possiede svariate azioni e ruoli funzionali.
Infatti, l'inadeguata quantità di insulina è di certo un fattore favorente numerosi stati patologici:
obesità,
dislipidemia,
ipertensione arteriosa,
steatosi epatica ed eventuali ripercussioni su altri organi bersaglio.
Ecco allora che il
meccanismo di compenso posto in atto dall'organismo risulta, nel divenire del tempo, essere dannoso con possibilità di evocare danni organici anche gravi.
Occorre però immettere nel nostro ragionamento un ulteriore tassello al fine di completezza.
L'insulino-resistenza può anche essere secondaria: vale a dire essere frutto di altra patologia preesistente.
Tale preesistente stato di malattia, oltre che svolgere la sua azione patogena principale, è anche in grado secondariamente di provocare insulino-resistenza.
In quali malattie succede? Si da un breve e parziale elenco:
morbo di Cushing,
sindrome di Prader,
morbo di Cooley, obesità,
feocromocitoma,
emocromatosi,
acromegalia,
anemia di Fanconi,
diabete e diabete gestazionale, ipertensione arteriosa.
Ora il quadro appare completo. La domanda immediatamente successiva, ed è quella che la gentile Utente sottintende, è quale sia l'esame in grado di identificare la vigenza di insulino-resistenza.
La risposta è che non esiste.
La prima indagine è volta a stabilire se lo stato di insulino-resistenza sia primario o secondario (come si diceva: secondario a svariate malattie di cui si è dato un parziale, ma significativo esempio).
Quindi esami e tests volti al fine di escludere preesistenti malattie provocanti lo stato di resistenza all'insulina.
Tale esplorazione appare spesso difficile e indaginosa richiedendo tempo e pazienza. Una volta esclusa la secondarietà della disfunzione, si potrà accentrare l'attenzione sullo studio della primarietà dello stato di insulino-resistenza.
Occorrerà approntare una batteria di tests ematici di primo livello con
test di tolleranza al glucosio, emoglobina glicata, profilo lipidico, studio della
proteina c reattiva ad alta sensibilità,
alanina amino transferasi,
acido urico,
testosterone e la misura della globulina legante gli ormoni sessuali (SHBG) e porsi in stato di attivo controllo dei medesimi con successivi approfondimenti relativi.
Di fronte ad una supposta o in caso di sospetto, occorre che il medico, in simbiosi con in paziente, discuta del problema: senza nascondere le difficoltà, dovrà analizzare le possibili cause e le dirette possibili conseguenze di tale stato disfunzionale e, per contro, il paziente dovrà metter in campo la propria pazienza, nonchè l'apprezzamento verso un medico che sappia svolgere una simile attività fatta di modestia e comprensione.
Saluti