Alte dosi di statine, usate per abbassare il colesterolo, possono aiutare le persone affette da una comune malattia degli occhi, chiamata degenerazione maculare legata all’età (AMD).
Questo è quanto ha dimostrato uno studio di un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School, Massachusetts, e pubblicato sulla rivista scientifica EBioMedicine. Il trattamento sarebbe efficace per la forma secca della malattia, e non quella umida, per la quale esistono già alcune cure più efficaci.
La degenerazione maculare
La degenerazione maculare colpisce più di 150 milioni di persone in tutto il mondo. Questa è una malattia retinica che provoca una riduzione della funzionalità della zona centrale della retina (la “macula”), causando anche la perdita della visione centrale.
La forma secca è molto più comune e rappresenta circa l’85 per cento dei casi. La malattia consiste nell’accumulo di depositi di lipidi – drusen – sotto la retina, dovuti al processo di invecchiamento, un accumulo che può arrivare a portare alla perdita completa della visione centrale.
Quant’è diffusa?
La degenerazione maculare legata all’età (AMD o DMLE) è la prima causa di cecità. Indicativamente il 5% della cecità mondiale è dovuto all’AMD.
In Italia si calcola che siano colpite circa un milione di persone. I sintomi iniziali si manifestano con una distorsione delle immagini; difficoltà nella lettura e nella visione dei piccoli dettagli; perdita della brillantezza dei colori.
Lo studio
Nello studio, 23 pazienti con forma secca di AMD sono stati trattati con una dose elevata (80 milligrammi) di atorvastatina per via orale. In 10 di questi pazienti, i depositi di grasso sotto la retina hanno subito una diminuzione significativa, con un miglioramento nella visione generale. Anche se lo studio è piccolo e sono necessarie ulteriori ricerche, i risultati lasciano ben sperare.
“Ci auguriamo che questo promettente preliminare studio clinico sarà la base per un trattamento efficace per milioni di pazienti affetti da AMD“, ha detto in un comunicato stampa il dr. Joan Miller, coautore della ricerca.