Cosa è la sindrome di Edwards (detta anche Trisomia 18)?
La sindrome di Edwards, nota anche come Trisomia 18, è una malattia genetica rara che può colpire il feto. Si tratta della seconda trisomia autosomica più frequente, dopo la trisomia 21 (conosciuta come sindrome di Down). Il quadro clinico è molto più grave della sindrome di Down, e la possibilità di sopravvivenza e di condurre una vita normale è molto ridotta.
Sindrome di Edwards: qual è l’incidenza?
La sindrome di Edwards si presenta con una frequenza di circa una gravidanza ogni tremila.
Il 90% dei bambini affetti da questa patologia muore entro il primo anno di vita, quasi sempre durante le prime settimane. Solo i soggetti affetti da mosaicismo arrivano all’età adulta, pur sviluppando grandi disabilità fisiche e mentali. Circa l’80% dei casi di Trisomia 18 colpisce il sesso femminile.
Le cause della Trisomia 18
Ogni organismo sano dispone di 23 coppie cromosomiche; per un errore nella divisione di cellule germinali (ovuli e spermatozoi) l’ovulo fecondato può trovarsi ad avere una terza copia del cromosoma 18, per un totale di 47 cromosomi. Ne consegue la sindrome di Edwards.
In alcuni casi, l’errore nella divisione cellulare può avvenire nelle prime fasi di sviluppo embrionale, cosicché la copia in più del cromosoma 18 è presente solo in alcune cellule del corpo (mosaicismo).
Esiste inoltre la possibilità, molto rara, che il cromosoma in eccesso sia solo parziale e non intero. Questo può dar luogo a forme più lievi della malattia e può derivare da una “traslocazione” (un frammento del cromosoma si attacca a un altro cromosoma) che avviene nella cellula germinale o che è presente in uno dei genitori.
La sindrome di Edwards non è ereditaria in quanto è dovuta a un errore nella divisione cellulare in una particolare cellula uovo o spermatica. Pertanto, una eventuale storia di sindrome di Edwards diagnosticata in una precedente gravidanza non predice un rischio maggiore. L’unico elemento che sembra aumentare lievemente il rischio di incorrere in questa patologia (come per altre trisomie) è l’età avanzata della madre; qualche dato sembra suggerire che anche l’età del padre possa avere una influenza.
Solo nel caso delle trisomie parziali la sindrome può considerarsi ereditaria, se la traslocazione è presente in modo bilanciato (la parte mancante in un cromosoma 18 è attaccata ad un altro cromosoma) in uno dei genitori; in tal caso, le cellule germinali vedranno o la mancanza di una porzione del cromosoma 18 (in genere incompatibile con una gravidanza a termine) o una porzione dello stesso in eccesso (trisomia 18 parziale), e la sindrome potrebbe ripresentarsi in gravidanze successive.
I sintomi della sindrome di Edwards
Come per ogni patologia genetica, i sintomi sono legati al tipo di cromosoma in eccesso nel cariotipo.
In genere, chi soffre della sindrome di Edwards presenta:
- dimensione ridotta e anomala del cranio
- malformazioni delle mani
- labbro leporino
- onfalocele
- malformazioni e disturbi cardiaci
- malformazioni e disturbi renali
- ritardi mentali
- malformazioni ossee (specie alla colonna vertebrale)
- difficoltà respiratorie
- problemi motori
Come si cura la sindrome di Edwards?
Non vi è terapia per la sindrome di Edwards. Il trattamento è sintomatico e mira a prolungare la vita del neonato. Il piccolo è tenuto sotto osservazione da molti specialisti, per far fronte a ogni possibile emergenza.
Come si diagnostica in gravidanza?
Per avere una diagnosi attendibile già durante la gravidanza, è possibile affidarsi al test del DNA fetale nel sangue materno (noto anche come Nipt Test).
Questo esame è particolarmente sicuro e affidabile, non è assolutamente invasivo e fornisce risultati attendibili entro circa una settimana. Attraverso un semplice prelievo del sangue è possibile effettuare un test probatorio per le trisomie autosomiche (presenza di una copia in eccesso di un cromosoma non sessuale, cioè non X o Y). Ogni donna, a partire dalla 10a settimana di gravidanza, può sottoporsi all’esame.
Il test analizza quantitativamente il DNA del feto, rivelando eventuali alterazioni numeriche dei cromosomi e può sostituire il ricorso a tecniche più invasive di diagnosi prenatale come la villocentesi e l’amniocentesi.
Amniocentesi: cosa è?
L’alternativa ai test Nipt è l’amniocentesi, un esame diagnostico che si effettua tra la 15a e la 18a settimana di gravidanza per scoprire eventuali anomalie cromosomiche del feto, patologie genetiche e infezioni fetali.
S’introduce un ago nella cute dell’addome materno, si attraversa la parete dell’utero e la membrana amniotica fino a giungere nel sacco amniotico, dove viene prelevato il liquido amniotico per le analisi.
In genere i risultati dell’esame sono disponibili in circa 20 giorni.
L’amniocentesi è un esame che può essere proposto in caso di:
- età materna elevata (superiore ai 35 anni)
- anomalia cromosomica in uno dei due genitori
- presenza di una malattia genetica in famiglia
- nascita di un precedente figlio affetto da malattia genetica
- esame effettuato in gravidanza che ha dato esito incerto o comunque da verificare
A differenza del test genetico (Nipt) sul prelievo di sangue della madre, l’amniocentesi è un esame che comporta dei rischi, anche piuttosto gravi.
Il principale è quello di causare un aborto, in seguito alla rottura del sacco amniotico durante il test (questa occorrenza si verifica in 1 caso su 300 circa).
Esistono però anche altre problematiche che possono richiedere la ripetizione del test, aumentando i rischi per il feto:
- se le cellule amniotiche prelevate con l’amniocentesi non si moltiplicano in coltura
- se si riscontrano casi di mosaicismo (presenza contemporanea di cellule normali e cellule con anomalie cromosomiche)
È molto diffusa, infine, l’aspettativa che a un’amniocentesi positiva corrisponda un bambino sano. Questo è un malinteso, in quanto l’esame non può valutare la possibile presenza di ogni tipo di patologia, ma solo la eventuale presenza di patologie cromosomiche: purtroppo esistono molte gravi malattie che non possono essere diagnosticate attraverso un’amniocentesi.
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