Un team di ricerca internazionale, coordinato dai ricercatori dell’Università del Michigan, con cui hanno collaborato i colleghi dell’Università Case Western Reserve e il Dipartimento di Dermatologia dell’Ospedale Xijing di Xi’an, in Cina, ha scoperto che un fattore di trascrizione (chiamato VGLL3) potrebbe essere alla base del rischio sensibilmente maggiore delle donne, rispetto agli uomini, di sviluppare malattie autoimmuni, ovvero quei disturbi che alterano il normale funzionamento del sistema immunitario, dando origine a risposte immuni anomale, laddove non è necessario.
I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JCI Insight.
Le malattie autoimmuni colpiscono maggiormente le donne
Il gruppo di ricerca, coordinato dal dr. Johann Gudjonsson, docente di Dermatologia dell’ateneo di Ann Harbor, è giunto alla conclusione che il fattore di trascrizione VGLL3 è presente in maggiori quantità nel sesso femminile piuttosto che in quello maschile, tramite studi condotti sui roditori.
La ricerca è partita da una indagine condotta dallo stesso team tre anni prima, nella quale i ricercatori avevano identificato nella pelle delle donne una concentrazione di VGLL3 molto più elevata rispetto a quella presente sulla pelle degli uomini. Partendo da questa evidenza, i ricercatori hanno modificato geneticamente alcuni roditori per manifestare una sovrapproduzione di VGLL3, che ha provocato una risposta aggressiva del sistema immunitario, reazione che si è spinta ben oltre i rush cutanei, andando a colpire anche altri organi.
Questa aggressività ha permesso agli scienziati di rilevare nei roditori i medesimi anticorpi che attaccano la funzionalità renale nei pazienti affetti da lupus. In altre parole, il fattore di trascrizione VGLL3 sarebbe in grado di modificare l’espressione di alcuni geni coinvolti nelle patologie autoimmuni.
La speranza? Terapie più efficaci
Malgrado l’importante scoperta, i ricercatori non hanno saputo spiegare il motivo per il quale le donne presentano più VGLL3 nella pelle, anche se ipotizzano che l’organismo femminile possa essersi evoluto per far fronte con maggior efficacia alle infezioni, aumentando di contrario la vulnerabilità alle malattie autoimmuni.
Un ulteriore aspetto ancora da indagare è quali siano i fattori in grado di attivare il VGLL3 e spingerlo a scatenare la reazione autoimmune. Individuare questo aspetto potrebbe, infatti, contribuire allo sviluppo di terapie mirate a curare le patologie autoimmuni.
Attualmente, le terapie impiegate per il trattamento del lupus e di altre malattie autoimmuni a base di steroidi possono aumentare il rischio di soffrire di infezioni e di sviluppare il cancro, per questo sarebbe molto importante riuscire a individuare trattamenti alternativi più efficaci e anche più sicuri per la salute delle persone.
A questo scopo, il gruppo di ricerca guidato dal dr. Gudjonsson sta lavorando alla messa a punto di nuove sperimentazioni cliniche su pazienti umani, per verificare si dati emersi dallo studio effettuato sulle cavie da laboratorio siano replicabili anche sull’uomo.
Non ci resta che aspettare i risultati dei prossimi studi e sperare che i dati vengano confermati. Questo potrebbe contribuire allo sviluppo di nuove e importanti terapie per il trattamento delle patologie autoimmuni.