La solitudine crea una parete di vetro che ci isola dagli altri?

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

solitudine: i pro e i contro

Dr. Renato Vignati, specialista in psicoterapia. 


La solitudine è una condizione che crea sofferenza e disagio. Abbiamo chiesto al dr. Renato Vignati, psicologo, come affrontarla al meglio e superarla, aprendoci agli altri con coraggio e serenità.

Come la solitudine può alimentare la sofferenza?

Nessun essere umano nasce e vive solo, e nessun isolamento dal contesto sociale si realizza mai completamente, benché i sentimenti di delusione, tradimento e dolore, o la ricerca solitaria del sé, possono spingere a restare per lunghi periodi lontano dagli altri, esasperando la sensazione di essere soli al mondo.

Il bisogno di contatto e di attaccamento, come anche il senso di appartenenza a un gruppo, prima o poi, creano un varco verso la relazione con l’altro, come attestano tutte le indagini psicologiche prodotte nel tempo. D’altra parte, l’assenza di socialità, di contatto fisico e scambi affettivi, può compromettere gravemente la sopravvivenza e il normale adattamento, producendo ritardi nello sviluppo cognitivo e motorio, come dimostrano le ricerche di René Spitz del 1946, condotte sul campo o anche per osservazione diretta, su bambini piccoli.

Quando non può costruirsi un legame affettivo ed è assente l’interazione emotiva con la figura che accudisce, il minore si sente abbandonato, smarrito, incapace di trovare nella sua realtà punti di riferimento vitali. I fattori psicologici ed emotivi coinvolti nella relazione madre-bambino, e in particolare le carenze e privazioni delle cure materne, sono stati indagati da John Bowlby negli anni ’50.

La sua attenzione si è concentrata sulle possibili conseguenze per la personalità del bambino, di un’eventuale separazione o perdita precoce, riscontrando come la deprivazione del legame di attaccamento, o l’abbandono, temporaneo o definitivo della figura di riferimento, determini in modo negativo lo stile relazionale del minore, che successivamente nel suo sviluppo manifesterà comportamenti di insicurezza, stati di angoscia, ansia e depressione.

Naturalmente, l’evento traumatico della separazione e l’isolamento dalla figura che dispensa le cure, potrà non avere esiti così drammatici se sarà controbilanciato dalle risorse resilienti del soggetto e del suo contesto sociale.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  A queste ricerche, concentrate nel periodo della prima infanzia, per molto tempo non hanno fatto seguito altre indagini rivolte allo studio degli effetti deleteri della solitudine e dell’isolamento sensoriale, affettivo e sociale (quest’ultimo può diventare uno stigma).

Solo negli ultimi trent’anni, la psicologia scientifica si è occupata pienamente delle problematiche della solitudine, rivolgendo il suo sguardo anche ad altri temi cruciali, quali l’amore, l’amicizia e la sessualità. Secondo Maria Miceli (“Sentirsi soli”, 2003), i motivi del disinteresse, protrattosi così a lungo, sono da ricercare nella complessità e soggettività dell’esperienza della solitudine che la rendono irriducibile agli esperimenti di laboratorio.

Il disinteresse della società per tale fenomeno, si è mantenuto così a lungo anche per il pregiudizio nei riguardi di chi soffre di solitudine, considerata alla pari di una persona chiusa e introversa, intenta a compiacersi nell’autocommiserazione, quindi priva di ogni volontà per rendersi accettabile e gradevole socialmente. In definitiva, nel pensiero comune si sceglieva di leggere nello status di chi vive solitario la scelta colpevole di volersi isolare, non distinguendo, invece, le diverse forme e gli aspetti che può assumere la solitudine e le sue cause più remote (ad es. la timidezza).

Quali sono i luoghi e i volti attribuiti alla solitudine?

La condizione della solitudine esistenziale contemporanea, apparentemente attenuata dalle opportunità offerte dalle nuove tecnologie che consentono di cercare aiuto, sostegno e sfogo emotivo, almeno virtualmente, sembra inevitabile. Quando la morsa della solitudine diventa più stringente, si corrono i maggiori rischi associati a fenomeni psicopatologici piuttosto gravi, quali depressione, scarsa autostima, alcolismo, disturbi ansiosi e alimentari, dipendenze di vario genere e suicidio.

Tra le diverse facce della solitudine, comunque, è da annoverare anche una forma per così dire “felice”, “buona”, di consapevolezza e sintonia profonda con il Sé più autentico, che assume il significato di far pace con se stessi e di ritrovarsi nel mondo.

La vicenda esistenziale di Ellen West, narrata estesamente nel mio ultimo libro “Lo sguardo sulla persona. Psicologia delle relazioni umane” (Libreriauniversitaria, 2016), può riportare alla luce le motivazioni più profonde che spingono una giovane donna alla solitudine, alla disperazione e alla tragica fine, avvenuta all’età di 33 anni.

Il resoconto completo della sua storia, che si svolge nello scenario inquietante della Germania nazista degli anni ’20, proviene dall’analisi esistenziale (Daseinsanalyse) compiuta da Ludwig Binswanger (“Il caso Ellen West”, 1945), riducendone tuttavia il valore di persona a un modello paradigmatico, una figura antropologica, quasi un oggetto clinico e di studio su cui sperimentare le pratiche psichiatriche. Ellen, è una giovane donna sensibile che non può vivere le sue passioni amorose perché contrastata dal padre autoritario che le impone di interrompere ogni relazione affettiva. Il conflitto interiore la porterà ben presto a manifestare stati di malinconia e depressione, oltre al disturbo alimentare anoressico-bulimico, vissuto con notevole angoscia per la visione alterata nel percepire la forma e il peso del proprio corpo, nell’illusione di poter essere eterea.

Le tre terapie psicoanalitiche che intraprende si rivelano alla fine dei fallimenti, e ogni tentativo di sottrarsi all’angoscia, le rafforza la convinzione che nessuno può aiutarla veramente e che la morte è l’unica via di liberazione, come poi avverrà per suicidio. Nella sua solitudine si ritrova come davanti a una parete di vetro che la porterà a scrivere nel suo diario: “Io grido ma loro non mi sentono”.

Negli anni ’50, Carl Rogers (“Un modo di essere”, 1980) si occupa della vicenda, formulando un giudizio nettamente negativo nei confronti di chi avrebbe dovuto accettarla e seguirla empaticamente nell’esperienza di cura, rivelandosi invece incapace di offrire una vera relazione di aiuto e ascolto. Per Rogers, solo tale considerazione positiva in realtà avrebbe permesso ad Ellen di accettarsi, affrontare la vita, i conflitti emotivi e relazionali, consentendo una maturazione e un funzionamento di sé ottimali.

In tal modo, si sarebbe dissipata la parete di vetro, superando i due aspetti deleteri della solitudine, ossia l’estraniamento da se stessi e l’assenza di una relazione significativa.

Come ritrovare la strada della socialità e del ben-essere?

Sembra paradossale, ma imparare a stare soli, può rappresentare la strada per ritrovare l’equilibrio interiore tracciando la giusta distanza dagli altri. Come avviene nel dilemma del porcospino, una storia riferita da Arthur Schopenhauer (1851), che descrive il bisogno di alcuni porcospini (animali solitari), in una fredda giornata d’inverno, di proteggersi col calore reciproco, per non rimanere assiderati. Stringendosi e avvicinandosi troppo, però, finirono per pungersi con i loro aculei, e il dolore provato li costrinse ad allontanarsi l’uno dall’altro.

Ma quando il bisogno di riscaldarsi diventò più forte, si ripeté il tentativo di avvicinamento reciproco, con il risultato di doversi nuovamente allontanare, e continuarono avanti e dietro fino a che non trovarono una distanza accettabile per non ferirsi reciprocamente. Risulta evidente l’analogia con le relazioni fra esseri umani, specialmente nel legame di coppia, che devono trovare la distanza di sicurezza impegnandosi a costruire forme di socialità e coesistenza, fidandosi e dandosi aiuto reciproco, evitando incomprensioni e affrontando i conflitti.

Esistono delle strategie, mentali e comportamentali, che iniziano dalla consapevolezza della situazione precaria e di malessere esistenziale, e possono aiutarci attraverso alcune azioni ad affrontare meglio il senso di solitudine incombente: esaminare le cause, individuare le soluzioni per superare il disagio, prendere decisioni, regolare le emozioni (prima comprenderle, poi tentare di ridurre le loro manifestazioni afflittive), ridimensionare le aspettative irrealistiche riguardo ai rapporti sociali, impiegare varie tattiche compensative (soffermarsi sul lato positivo delle esperienze, accettare le ferite affettive come momenti di crescita e autonomia, riequilibrare la visione disastrosa della propria vita relazionale).

Altre strategie possono spingerci a cercare e intensificare i contatti, inventarci nuove modalità e occasioni di incontro, come frequentare corsi, circoli, club, palestre, o hobby sociali, migliorare l’aspetto estetico con nuovi look, manifestare un atteggiamento più spontaneo e di maggiore disponibilità, ecc. Naturalmente, quando esiste solitudine cronica e profonda sofferenza, conseguente alla percezione di una forte discrepanza tra le relazioni affettive e sociali ambite e quelle conseguite, è necessario ricorrere all’aiuto dello psicoterapeuta che potrà riannodare i fili emotivi e sociali perduti.

Infine, un modo per ritrovare la giusta socialità è espresso nelle parole di Fabrizio De André: “Ma il silenzio vero non esiste, come non esiste la vera solitudine. Basta abbandonarsi alle voci dell’Universo”.

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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