TW: procedendo nella lettura si affronterà il tema del suicidio
Forza o debolezza, controllo o emotività, la società ha insegnato a uomini e donne a vedersi in modi opposti. Anni di pregiudizi e aspettative hanno reso il parlare di salute mentale e genere un po' come cercare di guardarsi in uno specchio deformante: quello che restituisce non è mai un’immagine fedele. Si crea così uno scarto profondo tra il dolore vissuto e quello riconosciuto, con diagnosi tardive, cure inappropriate e silenzi che pesano come macigni. Forse è arrivato il momento di andare oltre gli specchi, le etichette e i filtri, per guardare da vicino cosa significa davvero parlare di salute mentale e genere.
Diagnosi e aspettative di genere: una realtà distorta
Fin dai tempi della scuola si è abituati a dividere la lavagna in maschi e femmine, buoni o cattivi. Questa interpretazione in bianco e nero è utile alla sopravvivenza perché rende la realtà rapidamente interpretabile e facilita le scelte che dovrebbero metterci maggiormente al sicuro, ma con il passare del tempo è necessario evolvere e imparare a tollerare un realtà più complessa.
Nel campo della salute mentale, le divisioni rigide si sono tradotte in diagnosi fortemente influenzate dagli stereotipi di genere. Le donne, percepite come più emotive, ricevono con maggiore frequenza diagnosi di ansia, depressione o disturbo borderline di personalità. Riguardo gli uomini, ci si ferma alle manifestazioni più esternalizzanti legate alla rabbia, all’abuso di sostanze, antisociali, spesso trascurando manifestazioni più sottili del disagio.
Questa realtà è il risultato di pregiudizi culturali che sono tracimati nella clinica. Curiosamente la ricerca, storicamente focalizzata su modelli maschili per le patologie fisiche, è stata notevolmente ‘accogliente’ con le donne sia nei manicomi che nei trial psichiatrici. La stragrande maggioranza della letteratura sul disturbo borderline ha selezionato partecipanti donne, questo ha contribuito a creare il mito che fosse un disturbo prevalentemente femminile, e nonostante sia stato smentito, basta una rapida ricerca online per vedere che si continua a divulgare un dato vecchio e impreciso. Vale la pena ricordare che, in Italia, fino al 1968 l’adulterio era un motivo sufficiente a venire internate in manicomio. E che nel periodo del fascismo tra i sintomi considerati rilevanti da un punto di vista psichiatrico ci sono stati essere: loquace, eccitata, indocile, cattiva, ciarliera, piacente e per fino rossa in viso.
I tempi sono cambiati, certo, ma di strada ce n’è ancora tanta da fare. Le conseguenze di avere bias legati al genere, quando si parla di salute mentale sono: diagnosi tardive o errate, cure che non rispondono realmente ai bisogni delle persone, e un’alimentazione costante dello stigma.
Lo stigma declinato al maschile e al femminile
Lo stigma in salute mentale, anche detto sanismo o psicofobia, si riferisce a pregiudizi, stereotipi e discriminazioni che circondano le persone che hanno o sono considerate avere disturbi psichiatrici. Si manifesta attraverso giudizi negativi, isolamento sociale e barriere culturali, ed è una delle barriere più insidiose all’accesso alle cure. Ovviamente, la sua manifestazione cambia profondamente in base al genere.
Per gli uomini, lo stigma assume spesso la forma della cosiddetta “mascolinità tossica,” quella narrazione che associa la forza alla capacità di non mostrare mai vulnerabilità. Un uomo che soffre di depressione o ansia viene visto come debole, e questo contribuisce a una scarsa ricerca di aiuto. In molti casi, il disagio viene mascherato dietro comportamenti aggressivi, e la sofferenza auto-medicata attraverso l’abuso di sostanze, rendendo ancora più difficile individuare il problema. Per chi volesse approfondire questo argomento consiglio di recuperare il documentario ‘Beyond Men and Masculinity’ su Netflix.
Per le donne, invece, lo stigma si radica in una lunga tradizione che associa l’emotività a fragilità, a drammaticità. Ancora oggi, termini come “isterica” vengono usati per delegittimare il dolore femminile, sia in ambito clinico che sociale. Questo porta molte donne a essere etichettate in modo riduttivo, impedendo una comprensione reale delle loro difficoltà.
Insomma, non va bene niente, in ogni caso si rimane o troppo forti o troppo deboli.
Lo stigma non risparmia nessuno, semplicemente agisce in modo diverso, creando ostacoli specifici che vanno affrontati con strumenti adeguati e sensibilità verso queste dinamiche.
Suicidio maschile: un dramma silenzioso
Ogni statistica sul suicidio maschile è un grido di dolore che spesso rimane inascoltato, specchio di un sistema sociale che fatica a riconoscere la vulnerabilità come un tratto umano universale. Gli uomini rappresentano circa il 76% dei suicidi in Europa, ma questa tragedia non riceve l’attenzione che meriterebbe.
Il silenzio che avvolge il suicidio maschile è figlio della stessa cultura che spinge gli uomini a non chiedere aiuto. La pressione a mantenere un’immagine di forza e autosufficienza li isola e impedisce di riconoscere i segnali di disagio fino a quando è troppo tardi.
Non si tratta solo di una questione di accesso alle cure, ma di una narrazione sociale che deve cambiare. Parlare di suicidio maschile significa aprire spazi di ascolto e creare reti di supporto capaci di intercettare il disagio prima che diventi insostenibile.
Trattamenti e ricerca: un gap ancora aperto
La storia della medicina e della salute mentale riflette un percorso lungo e complesso, spesso caratterizzato da limiti strutturali e da un approccio che ha trascurato il genere come variabile critica.
Per molti decenni, le donne sono state escluse dai trial clinici, una scelta legata principalmente al timore che la variabilità ormonale o i rischi per le donne in età fertile potessero compromettere i risultati o aumentare la responsabilità dei ricercatori. Tuttavia, questa esclusione ha portato a trattamenti sviluppati su modelli maschili, creando lacune conoscitive significative e risultati terapeutici non sempre ottimali per le donne. È solo dal 1993, con l'introduzione di linee guida da parte del National Institutes of Health (NIH), che l'inclusione delle donne negli studi è diventata obbligatoria, segnando un primo passo verso una ricerca più equa (National Institutes of Health Revitalization Act, 1993).
Questo squilibrio è particolarmente evidente nella salute mentale. Le donne, ad esempio, ricevono diagnosi di depressione con una frequenza sproporzionata rispetto agli uomini, anche in presenza di sintomi identici o punteggi simili su test standardizzati (Bertakis et al., 2001). Questa tendenza può portare a una medicalizzazione eccessiva dei loro disturbi, con una prescrizione di farmaci psicotropi significativamente più alta rispetto agli uomini (Simoni-Wastila, 1998).
Al contrario, i disturbi maschili, come la depressione, possono essere sottovalutati o mascherati da diagnosi di abuso di sostanze o comportamenti antisociali, contribuendo a un trattamento inadeguato e a un maggiore rischio di suicidio (Rutz et al., 1995).
Un altro elemento critico riguarda la rappresentanza nella psichiatria stessa. Nonostante la crescente presenza di donne in medicina, gli squilibri permangono, soprattutto nelle posizioni di leadership. Secondo uno studio recente, le psichiatre riferiscono di sperimentare tassi più elevati di discriminazione di genere rispetto ai loro colleghi uomini, il che può influenzare la progressione professionale e il numero di donne in ruoli chiave (Frangou, 2017). Per quanto riguarda l’Europa, nel 2017 si contavano circa 80.000 psichiatri, ma il dato sulle donne resta limitato e disomogeneo (World Health Organization, 2017). Negli Stati Uniti, invece, le donne rappresentano poco più di un terzo degli psichiatri, nonostante costituiscano metà della popolazione (Wyse et al., 2020).
Un ulteriore limite significativo è rappresentato dalla cosiddetta ricerca “neutrale,” che non considera adeguatamente le differenze di genere nei risultati terapeutici. Ad esempio, l’impatto della gravidanza, del ciclo mestruale o della menopausa sulla salute mentale delle donne è spesso sottovalutato, così come le conseguenze psicologiche della violenza domestica e delle disuguaglianze economiche (Howard et al., 2014). Questa mancanza di attenzione perpetua un approccio standardizzato ai trattamenti che ignora la realtà delle differenze di genere, riducendo l’efficacia terapeutica.
Per affrontare queste criticità, è necessario un cambiamento sistemico che includa: investimenti in studi che considerino il genere come variabile centrale, formazione dei clinici sui bias di genere e l’implementazione di politiche che promuovano l'accesso equo alle cure. Migliorare la rappresentanza femminile nella psichiatria e sensibilizzare il pubblico sui rischi di un approccio generalizzato sono passi fondamentali per garantire una salute mentale realmente inclusiva e personalizzata.
La narrazione sui social e nei media: tra polarizzazioni e luoghi comuni
Con tutta l’attenzione che la salute mentale ha guadagnato negli ultimi anni sono in molti a sperare in un dibattito più articolato sia sui social media che nei media generalisti; sfortunatamente la narrazione continua a semplificare eccessivamente il tema.
Questi canali, hanno il merito innegabile di aver rotto un muro il silenzio, aver normalizzato alcune conversazioni, aver dato alla community dei pazienti uno spazio espressivo importantissimo, e averli messi in contatto con la comunità scientifica come mai prima d’ora. Purtroppo sono anche tra i principali responsabili della perpetuazione di stereotipi e luoghi comuni attraverso: la spettacolarizzazione del dolore, l’amplificazione che viene data agli stereotipi di genere, gli algoritmi che polarizzano la conversazione, disinformazione e autodiagnosi.
La spettacolarizzazione del dolore
Sui social, il dolore psichico è spesso trasformato in un prodotto. Hashtag e campagne pur nascendo con il nobile scopo di sensibilizzazione, finiscono per creare contenuti virali che banalizzano esperienze complesse. Meme, video emozionali o post che "umanizzano" la sofferenza mentale spesso riducono condizioni articolate a slogan, creando una falsa idea di comprensione.
Questo tipo di narrazione può avere due effetti opposti: da un lato, incoraggia alcune persone a cercare aiuto, ma dall’altro può spingere verso l’autodiagnosi errata o la ricerca di soluzioni rapide che bypassano un percorso terapeutico adeguato. La spettacolarizzazione crea inoltre una distanza tra chi soffre realmente e chi consuma contenuti per intrattenimento o empatia superficiale.
Gli stereotipi di genere amplificati dai media
I media mainstream e i social media non sono immuni da bias di genere, e spesso emergono nei modi in cui vengono raccontati i disturbi mentali. Le narrazioni maschili tendono a enfatizzare la violenza, l’abuso di sostanze o il suicidio come esiti inevitabili di una pressione esterna. Questo rinforza la visione dell’uomo come vittima della società, senza affrontare i tabù che impediscono l’espressione emotiva e l’accesso alle cure.
Le narrazioni femminili, al contrario, pongono spesso l’accento sull’instabilità emotiva, l’ipersensibilità o il dramma, perpetuando immagini che radicano lo stigma. Molti disturbi sono rappresentati in modo sensazionalistico, con un focus morboso solo sulle crisi emotive e sui risvolti che questo ha sulla coppia, piuttosto che sulla possibilità di gestione e recovery.
L’algoritmo e la polarizzazione delle conversazioni
Che dire degli algoritmi dei social media, che privilegiano contenuti emozionali, controversi o facilmente condivisibili? Viene così favorita la diffusione di post polarizzanti che raccolgono consenso emotivo ma contribuiscono a una visione distorta della salute mentale.
L’effetto di questa polarizzazione è duplice: mentre alcune comunità trovano spazi di supporto reciproco, altre creano vere e proprie bolle ideologiche che rafforzano pregiudizi e ostacolano il dialogo. Assistiamo ad un proliferare di attività che sfruttano questi temi per vendere prodotti legati al benessere mentale, come app di meditazione o integratori, il cosiddetto well-washing ovvero l’utilizzo superficiale del benessere mentale per fini commerciali.
Il peso della disinformazione e dell’autodiagnosi
I social media sono anche terreno fertile per la disinformazione. Influencer, promotori di pseudoscienze, purtroppo in certi casi anche professionisti, propongono soluzioni semplicistiche e non supportate scientificamente. Questo aumenta il rischio di autodiagnosi, con persone che si identificano in sintomi descritti online senza un confronto con i clinici.
La disinformazione non colpisce solo chi cerca risposte, ma anche chi osserva da lontano. Un esempio è la rappresentazione del suicidio: invece di sensibilizzare, molti contenuti finiscono per sensazionalizzare o romanticizzare il gesto, aumentando i rischi di contagio mediatico, conosciuto come effetto Werther.
Non ci sono alternative se non quella di contrastare questi fenomeni promuovendo una narrazione che sia al tempo stesso informativa e rispettosa. Come? Privilegiando contenuti basati sull’evidenza e i divulgatori che citano le fonti, dando voce a esperti per professione ed esperti per esperienza qualificati, e garantendo il più possibile che le storie personali siano raccontate con dignità e senza spettacolarizzazione.
La salute mentale sui social non deve essere un’occasione per fare clickbait o marketing spinto (specialmente da parte delle aziende), e in questo chi ha profili social ha un enorme potere: quello di non premiare contenuti di questo genere. La sfida, anche per i ben intenzionati, è trovare un equilibrio tra sensibilizzazione e accuratezza, evitando di ridurre l’esperienza umana a un contenuto virale.
Conclusioni: verso una salute mentale più inclusiva
Parlare di salute mentale e genere significa addentrarsi in un territorio complesso che mette in soggezione, fatto di sfide ma anche di possibilità. È evidente che il sistema, così com'è, presenta lacune che continuano a influenzare negativamente diagnosi, trattamenti e narrazioni. Tuttavia, riconoscere questi limiti è già il primo passo verso un cambiamento concreto.
La salute mentale inclusiva non è un’utopia, ma una prospettiva possibile e raggiungibile solo se tutti gli attori coinvolti – professionisti, istituzioni, media e comunità – iniziano a vedere il genere non come un’etichetta, ma come una dimensione da considerare per comprendere e rispondere meglio alle diverse esperienze umane.
C’è una responsabilità collettiva nel creare spazi dove il dolore venga riconosciuto e non sminuito, dove nessuno debba scegliere tra essere “troppo forte” o “troppo fragile.” È necessario un impegno sistemico per superare lo stigma, educare alla complessità e investire in cure realmente personalizzate.
Ma c’è anche una speranza. La crescente consapevolezza sociale e l’apertura a conversazioni più autentiche stanno già spingendo verso un nuovo modo di intendere la salute mentale, meno legato agli stereotipi e più radicato nell’ascolto e nella comprensione. La strada è lunga, ma i primi passi sono stati fatti.
Il futuro della salute mentale non è scritto, e forse è proprio qui che risiede la possibilità più grande: smettere di adattare le persone ai sistemi e iniziare ad adattare i sistemi alle persone.
Bibliografia :
Bertakis KD, Helms LJ, Callahan EJ, Azari R, Robbins JA. The influence of gender on physician practice style. Med Care. 1995 Apr;33(4):407-16. doi: 10.1097/00005650-199504000-00007. PMID: 7731281.
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Howard, L. M., Molyneaux, E., Dennis, C. L., Rochat, T., Stein, A., & Milgrom, J. (2014). Non-psychotic mental disorders in the perinatal period. The Lancet, 384(9956), 1775-1788.
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