Perché molte persone sono così attratte dal gusto dolce da diventarne praticamente dipendenti? Nel caso siate golosi, non sentitevi troppo in colpa, se non esagerate fino a farvi male non finirete nel girone infernale descritto da Dante o, almeno, potrete chiedere le attenuanti. In fondo, è tutta colpa dell’istinto di conservazione. Mangiare, infatti, deve obbligatoriamente essere un’attività piacevole, dal momento che va ripetuta tutti i giorni ed è fondamentale per la nostra sopravvivenza e la nostra buona salute. I neuro-scienziati indicano il cibo come la nostra prima “ricompensa naturale”. Al fine per noi di sopravvivere come specie, le cose come mangiare, fare sesso e nutrire gli altri devono procurare stimoli piacevoli per il cervello, in modo da favorire la loro ripetizione quotidiana, almeno per il cibo.
Il nostro cervello funziona in base a stimoli. Quando facciamo qualcosa di piacevole si attiva un fascio di neuroni presenti nell’area ventrale che utilizza la dopamina, un neuro-trasmettitore, per portare lo stimolo alla parte del cervello detta nucleo accombens. Il nucleo accombens è connesso alla corteccia prefrontale che ci stimola a mangiare ancora. La corteccia prefrontale, inoltre, attiva degli ormoni che “memorizzano” il senso di piacere procurato da quel determnato cibo per ricordarcelo al momento opportuno, ad esempio quando vediamo lo stesso cibo, magari un dolce, passando davanti a una pasticceria. In questo modo, vedendolo o sentendone l’odore, ci assale la voglia di mangiarne ancora. Non tutti gli alimenti sono ugualmente gratificanti, naturalmente.
La maggior parte di noi preferisce cibi dolci più di quelli salati o amari, perché il nostro cervello, attraverso la parte chiamata via mesolimbica, situata nei gangli della base, ricorda che gli zuccheri forniscono al nostro corpo una fonte di energia immediatamente utilizzabile. Non a caso i nostri progenitori, prima di essere cacciatori erano cercatori di frutta, sicuramente, allora largamente disponibile in natura. Altrettanto di certo avevano imparato a decifrarne il “codice” utile per cibarsene con soddisfazione:
- sapore amaro, non commestibile o velenosa
- sapore acidulo, non ancora matura quindi non ancora mangiabile
- sapore dolce, matura e pronta per essere mangiata
L’industrializzazione dell’alimentazione ha ben presente questo principio tanto che, praticamente, non esistono, se non relegati in appositi settori, alimenti privi di zuccheri aggiunti, sia che questi vengano usati per dare sapore, sia per favorire la conservazione. Un decennio fa, alcune ricerche americane hanno stimato che l’americano medio consumasse 22 cucchiaini di zucchero al giorno, pari a un extra di 350 calorie; con tutta probabilità, e nonostante le battaglie salutiste, la tendenza è ancora universalmente in aumento. Pochi mesi fa, infatti, un esperto ha suggerito che il consumatore britannico medio mangia l’equivalente di 238 cucchiaini di zucchero ogni settimana. Va detto che gli zuccheri sono subdoli e, all’insaputa di molti di noi, creano dipendenza, esattamente come fanno le droghe, comprese quelle legali, come la nicotina o l’alcol.
Cosa succede in caso di privazione dello zucchero?
Si scatena una vera e proria crisi d’astinenza, anche se non grave come quella indotta dalle droghe. I primi giorni ci si sente irritabili, si perde facilmente la concentrazione e si cerca in tutti i modi di compensare la mancanza, il più delle volte eccedendo nell’assumenre carboidrati, a loro volta fonte di zuccheri, anche se secondari e non rilasciati immediatamente. In alcuni casi, famoso per questo è il cioccolato, la privazione crea un desiderio talmente forte da diventare smania.
Questi comportamenti sono stati ampiamente descritti da studi effettuati su animali da laboratorio. Un esperimento tipico, più volte confermato, si effettua privando di cibo le cavie per 12 ore al giorno. Gli animali vengono poi posti davanti a una soluzione zuccherata. Dopo un mese di questo schema quotidiano, le cavie mostrano comportamenti simili a quelli di chi abusa di droghe. Si mostrano euforici quando assumono la soluzione zuccherina molto più di quando si nutrono con il loro solito cibo e, allo stesso modo, mostrano segni di ansia e depressione durante il periodo di privazione dello zucchero. Inoltre, alcune cavie, zucchero dipendenti, sono state trattate con oppiacei verso i quali hanno sviluppato una dipendenza in tempi molto minori rispetto alle cavie non zucchero dipendenti. Questo conferma anche la possibilità che l’abuso di zucchero possa svolgere un’azione di “cross sensitivation”, in altre parole facilitare altre dipendenze.
Gli studi hanno dimostrato che lo zucchero, come le altre droghe, cambia nel tempo la concentrazione dei recettori della dopamina nel mesenecefalo e nella corteccia frontale. Questo spiega perché la dipendenza costringe ad aumentare le dosi quotidiane. In particolare, lo zucchero aumenta la concentrazione di un tipo di recettore eccitatorio chiamato D1, ma diminuisce quella del recettore D2, che è inibitorio. Il consumo regolare di zucchero inibisce anche della dopamina, diminuendone il trasporto e, conseguentemente, il senso di appagamento e l’euforia. Questo significa che l’assunzione abituale di zucchero deve essere costantemente aumentata per provare le stesse sensazioni di piacere.
Uno studio del 2002, del prof. Carlo Colantuoni e del suo team di ricercatori della Princeton University, ha studiato più a fondo gli effetti delle crisi di astinenza da zucchero. A un certo numero di cavie cui era stata indotta dipendenza da zucchero è stata poi indotta una crisi d’astinenza, sia con una privazione di cibo sia con il trattamento con naloxone, un farmaco usato per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Entrambi i metodi hanno causato problemi fisici, tra cui lo sbattere incontrollato dei denti, tremori alle zampe e spasmi muscolari al collo e alla testa. Il trattamento con naloxone ha reso i topi più ansiosi e assenti, rendendoli incapaci di riconoscere l’ambiente abituale e di svolgere movimenti naturali e altrettanto abituali. Esperimenti simili svolti da altri team di ricerca, riportano anche un comportamento simile alla depressione in compiti come ad esempio il test di nuoto forzato.
La cavie in crisi di astinenza da zucchero, infatti, si sono mostrate più propense a comportamenti passivi, restando immobili, rispetto a comportamenti attivi, come cercare di fuggire, se immersi in acqua, mostrandosi, di fatto, incapaci anche di proteggersi. Gli esperimenti, piuttosto estremi, sui roditori pur essendo improponibili sugli esseri umani, danno comunque un’idea delle basi neuro-chimiche della dipendenza da zucchero, confermandone l’esistenza e la potenziale pericolosità anche se, ancora oggi, l’argomento non è tenuto nella giusta considerazione sia negli ambienti scientifici che in quelli istituzionali. Se state pensando che rinunciare allo zucchero potrebbe essere troppo difficile rasserenatevi, se è vero come sembra dagli studi citati, che la zucchero-dipendenza esiste, altrettanto vero è che non è grave come quella da alcol e droghe e “disintossicarsi” è molto più facile. In pochi giorni e senza grandi sofferenze, ne uscirete “puliti”.
Poi non è proprio necessario privarsene del tutto. La frutta, ad esempio, è un’ottima fonte di zuccheri e, se la sostituirete alla fetta di torta, in breve proverete lo stesso piacere – lo dice la neuroscienza – e, semmai doveste diventare mela-dipendenti, non farete altro che farvi del bene.