Il declino cognitivo è diventato uno dei problemi sanitari più gravi per l’intero mondo Occidentale. Il rischio è fortemente correlato all’età. Si pensi che, se l’incidenza è di 1 su 100 nelle persone entro i 70 anni di età, passa ad 1 su 6 dagli 80 in poi.
Poiché la progressione della demenza si svolge nell’arco di molti anni e non è suscettibile di trattamento medico, i costi di questa patologia sono principalmente legati all’assistenza a lungo termine e vanno a impattare, in modo a volte devastante, sull’economia e sull’armonia delle famiglie. Si pensi, ad esempio, che la spesa economica relativa alla demenza senile supera quella del cancro, delle malattie cardiache e degli ictus.
La maggioranza dei casi di declino cognitivo sono causati dalla condizione neuro-degenerativa nota come morbo di Alzheimer. I patologi hanno individuato due cambiamenti caratteristici nel cervello di persone che sono morte di questa malattia:
- aggregati proteici anormali depositati tra le cellule nervose (dette placche amiloidi);
- gruppi di proteine filamentose con alterazioni chimiche evidenti, conosciute come grovigli neurofibrillari.
Nonostante si pensi che farmaci in grado di contrastare questi processi anomali possano fermare o, almeno, rallentare il decorso clinico della malattia, dopo un decennio di sperimentazioni non si è ancora riusciti a trovare una terapia farmacologica veramente efficace.
Quali sono gli ostacoli?
Il principale ostacolo è la lenta evoluzione della malattia. Come altri organi biologici, il cervello contiene più cellule nervose di quelle strettamente necessarie per la sopravvivenza. Questa ridondanza è vantaggiosa, in quanto permette un certo grado di recupero funzionale anche in caso di traumi o lesioni importanti, ad esempio dopo un ictus. Tuttavia, quando il danno è causato da una malattia degenerativa, che attacca e distrugge il cervello lentamente, neurone per neurone, l’attività di compensazione che si sviluppa in parallelo provoca cambiamenti regressivi, la cui evidenza è direttamente proporzionale alla progressione della patologia e diventa massima quando la malattia prende il sopravvento e l’attività di compensazione si riduce fino a cessare del tutto.
Uno dei maggiori problemi incontrati fino ad oggi dai ricercatori è che gli studi sono stati effettuati solo post mortem, esaminando quindi cervelli praticamente devastati e non in grado di fornire informazioni su origini e decorso della patologia.
Per questo, neurologi e ricercatori hanno recentemente introdotto il termine “mild cognitive impairment” riferito a pazienti con “moderato declino cognitivo”, per esaminare gruppi di persone le cui abilità cognitive hanno subito rallentamenti con l’età, ma ancora indipendenti e in grado di soddisfare autonomamente i propri bisogni quotidiani. In questi gruppi, si possono trovare sia pazienti i cui sintomi rappresentano le prime fasi della malattia di Alzheimer, sia casi che resteranno stabili, riflettendo il profilo cognitivo del normale invecchiamento.
Lo studio
Lo studio su questi gruppi di pazienti è stato soprattutto rivolto alla prevenzione della malattia, attraverso la scoperta e la riduzione dei fattori di rischio, scelta praticamente obbligata dal momento che una terapia efficace ancora non è possibile. Nelle sue forme più comuni, la patologia presenta diversi fattori di rischio conosciuti e che comprendono sia predisposizioni genetiche che situazioni critiche, come l’aver subito traumi cerebrali, oltre a fattori di disagio ambientale, come il livello di istruzione.
Dal punto di vista biologico ci sono prove che un aumento dei livelli ematici dell’aminoacido omocisteina, derivato della metionina, costituisca un importante fattore di rischio per la demenza. Alcuni individui nascono con alte concentrazioni di omocisteina, che danneggia i rivestimenti dei vasi sanguigni, causando ictus e attacchi di cuore anche in persone molto giovani, addirittura tra i venti e i trent’anni.
L’invecchiamento provoca una elevazione graduale dei livelli plasmatici di omocisteina e studi sulla popolazione, con esami post mortem, hanno recentemente scoperto che livelli di omocisteina elevati aumentano significativamente il rischio individuale di sviluppare la patologia di Alzheimer.
L’omocisteina non si assume con la dieta, quindi non è possibile limitare il rischio adottando cambiamenti nello stile di vita. È, tuttavia, criticamente dipendente dalla presenza organica di vitamine del gruppo B, che promuovono la sua conversione a prodotti chimici non tossici e biologicamente utili. Bassi livelli di vitamina B12 e acido folico portano a concentrazioni elevate di omocisteina, mentre una dieta che garantisca un regolare apporto di queste vitamine permette un ritorno a livelli normali.
Per questo, un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford, guidati dal dr. Robin Jacoby, hanno condotto un nuovo studio preliminare su soggetti con alti livelli di omocisteina plasmatica, denominato VITACOG. Lo studio, contro placebo, ha dimostrato che il cervello di coloro che hanno ricevuto vitamine del gruppo B ha subito meno lesioni, in modo significativo, di quelli del gruppo placebo, in particolare nelle aree che sono associate con i primi cambiamenti patologici nel morbo di Alzheimer.
Potrebbe bastare la somministrazione controllata di vitamine del gruppo B, in particolare B6, B12 e acido folico, a ridurre costi biologici e sociali del morbo di Alzheimer?
Il risultato dello studio sembra indicare questa strada, ma non va dimenticato che si tratta di uno studio di tipo preliminare, i cui risultati dovranno eventualmente essere confermati da ulteriori e più probanti ricerche cliniche per verificare quanto importanti potrebbero essere i miglioramenti rispetto al tasso di progressione della malattia, partendo da pazienti con diagnosi di decadimento cognitivo lieve.
Infatti, nonostante la ricerca sia stata condotta su un numero molto alto di soggetti e il follow-up abbia superato i 2 anni, la scelta dei pazienti non è stata uniforme, erano presenti sia pazienti con diagnosi accertata di lieve declino cognitivo che pazienti solo potenzialmente a rischio, e le condizioni di partenza non erano state sufficientemente analizzate, come avviene, appunto, negli studi preliminari.
Inoltre, la mancanza di cambiamenti dello stato cognitivo in entrambi i gruppi, durante il periodo di follow up, rende lo studio clinicamente assai poco significativo e tale da far affermare agli stessi ricercatori che “l’assunzione di vitamine del gruppo B non sembra possa impedire l’eventuale declino cognitivo nei soggetti che, durante lo studio, non hanno mostrato alcun segno di declino cognitivo“.
Pur con le dovute cautele, i ricercatori sembrano affermare comunque che i possibili benefici offerti dalle vitamine del gruppo B in soggetti ad alto rischio di malattia di Alzheimer dovrebbero poter essere nuovamente e più rigorosamente testati.