I ricercatori sono arrivati (forse) alla diagnosi precoce dell’Alzheimer: nuove cure in arrivo?

Roberta Nazaro

Ultimo aggiornamento – 30 Maggio, 2018

diagnosi preococe alzheimer: in arrivo nuovi farmaci?

Una nuova definizione della malattia di Alzheimer può cambiare radicalmente la diagnosi e la terapia per tale malattia? Sembrerebbe di sì. Le nuove linee guida pubblicate in aprile su Alzheimer’s & Dementia modificano la diagnosi dell’Azheimer sulla base o meno di alcuni marcatori biologici, detti anche biomarcatori.

Attualmente, però, tale ridefinizione sarà confinata soltanto a scopo di ricerca e non andrà ad incidere sulla diagnosi dei pazienti. Prima che questo avvenga, infatti, sono necessari ulteriori studi di conferma. Intanto, è bene però cercare di capire come potrebbe modificarsi la terapia, grazie a una diagnosi precoce. La ricerca sul morbo di Alzheimer è ancora in atto, è vero. Ma sembrerebbe essere davvero a buon punto.

Biomarcatori: un nuovo modo di far diagnosi

Secondo le nuove linee guida, la diagnosi per la malattia di Alzheimer sarà ora basata su tre biomarcatori principali ossia:

  1. L’accumulo di proteine beta-amiloidi, note anche come placche
  2. L’accumulo di proteine tau, dette grovigli
  3. Neurodegenerazioni

Secondo il dr. Jason Karkawish, autore delle linee guida, «la nuova definizione è un tentativo di spiegare meglio le cause che determinano problemi cognitivi e in secondo luogo potrebbe dare ai medici l’opportunità di prescrivere trattamenti in grado di rallentare o persino prevenire la demenza».

La nuova definizione della diagnosi della malattia, come già sottolineato, è accompagnata da una grande raccomandazione: attualmente è a scopo di ricerca. Una diagnosi clinica per i pazienti, infatti, sarà comunque eseguita secondo manifestazioni e sintomi dell’Alzheimer, come ad esempio la progressiva perdita di memoria e un declino delle capacità cognitive.

Per diagnosticare la malattia utilizzando i biomarcatori ora, un paziente deve sottoporsi a una test di sottrazione liquorale o ad una PET, considerate procedure ad alto-medio rischio. Secondo la dr.ssa Nancy Hodgson, professoressa all’Università della Pennsylvania, la diagnosi dei biomarcatori comporta spese, rischi e pericoli: insomma, soltanto i pazienti che mostrano sintomi evidenti possono sottoporsi a tali test diagnostici. È questo il motivo per cui la ricerca deve ancora andare avanti, sebbene l’obiettivo sia chiaro: permettere ai malati di Alzheimer di sottoporsi a questi esami per poter poi prescrivere una cura realmente efficace.

Perché la diagnosi di Alzheimer è sempre molto difficile

Il problema più grande, però, rimane. Non tutti coloro che presentano i biomarcatori sopra elencati mostrano i sintomi dell’Alzheimer e viceversa: la comparsa di un declino cognitivo non equivale all’effettiva presenza dei biomarcatori.

Attualmente, si stanno conducendo numerosi trials su persone che presentano i biomarcatori dell’Alzheimer, senza i criteri della demenza. Un ottimo esempio è lo studio A4, dove nei partecipanti sono stati riscontrati gli accumuli delle placche beta-amiloidi dopo una PET, senza tuttavia avere un declino cognitivo.

I ricercatori stanno dunque testando un farmaco che miri a queste placche e che impedisca in futuro di sviluppare i sintomi della demenza. Tuttavia, è stato stimato che circa un terzo delle persone con Alzheimer non presenta placche, grovigli o variazioni neurologiche nel cervello. Ciò significa che il farmaco che mira ai biomarcatori potrebbe non mostrare nessun effetto in tali pazienti, confondendo i risultati degli studi.

Il dr. Karlawish ha inoltre evidenziato una grave preoccupazione. «Un’area che necessita di ulteriori ricerche è l’esperienza delle persone con una diagnosi precoce di Alzheimer» – ha dichiarato il medico. Sembrerebbe, infatti, che le persone si arrendono alla malattia non perché mostrano i segni della demenza, ma perché hanno avuto la sentenza che svilupperanno una patologia senza possibilità di cura.

Nonostante queste problematiche, una nuova definizione permetterà di raggiungere due obiettivi chiave per la ricerca sull’Alzheimer:

  • Sviluppare un test molto più semplice da gestire
  • Trovare nuovi trattamenti per la malattia

C’è molta eccitazione in ambiente medico sia per cercare una cura sia per continuare il lavoro in questo ambito. La principale conseguenza di questa nuova definizione potrebbe essere che le persone a cui è stato diagnosticato l’Alzheimer non rientreranno più nella categoria e viceversa.

Se i nuovi criteri o i test per la diagnosi precoce della malattia dell’Alzheimer saranno in futuro convalidati con ulteriori studi di ricerca, i clinici potranno cominciare ad utilizzarli nella loro pratica. Ricordiamo, infatti, per chi è affetto da morbo di Alzheimer e declino cognitivo, la tempistica potrebbe essere la chiave per la guarigione.

Tirando le somme, non possiamo comunque negare la demenza rimanga una malattia progressiva e degenerativa, attualmente senza cura. Trovare un modo per aumentare le aspettative di vita per chi soffre di Alzheimer o è l’obiettivo principale.

La ricerca è – ovviamente! – la chiave di tutto.

Roberta Nazaro
Scritto da Roberta Nazaro

Sono insegnante di inglese e traduttrice, con laurea triennale in Scienza e Tecnica della Mediazione Linguistica e specialistica in Dinamiche Interculturali della Mediazione Linguistica presso l'Università del Salento. L'interesse per l'ambito medico mi ha portata al conseguimento del Master in Traduzione Specialistica in Medicina e Farmacologia conseguito presso il CTI di Milano.

a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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