Se una neo mamma parla con una nonna, è facile che quest’ultima le consigli, spesso e volentieri, di lasciar piangere il proprio bambino, e che quando sarà stanco di farlo smetterà, che non succede niente e subito dopo si addormenterà da solo.
Questa tecnica, messa a punto dal dottore neurologo e pediatra Richard Ferber, dell’Università di Harvard e presso l’ospedale pediatrico di Boston, si chiama “attesa progressiva” e si è diffusa ormai in tutto il mondo.
Ma cosa accade ai bambini mentre stanno continuando a piangere?
Ci possono essere delle conseguenze in questo modo di non intervenire? A quanto pare, la risposta è si. Non venendo rassicurato dai genitori, il bambino si ritrova con i livelli dello stress più alti. Il suo unico modo di comunicare è attraverso il pianto, e quindi potrebbe: aver bisogno di compagnia, avere fame, avere sete, aver mal di pancia per le coliche.
Dobbiamo capire che i bambini nei primi mesi di età, dipendono completamente dagli adulti e non sanno badare a loro stessi.
Il sistema nervoso centrale, quindi, potrebbe venir danneggiato dagli alti valori degli ormoni dello stress. Non solo, potrebbe risentirne anche la capacità futura di apprendimento.
Ad avvallare questa ipotesi è il primario di medicina psicosomatica, Karl Heinrich Brisch, che esercita presso l’ospedale pediatrico dell’Università di Monaco. Egli, infatti, spiega che i bambini apprendono subito come attivare un piano di emergenza, non venendo considerati si sentono come in pericolo di vita e quindi, come gli animali che si sentono sperduti, simulano la morte.
I piccoli in questo modo allo stesso tempo, imparano ad adattarsi ai momenti di stress.
La paura di non farcela innata dei bambini
La psicologa Katharina Saalfrank si è espressa a riguardo, dichiarando che i bambini hanno paura della morte di continuo. I bisogni che devono soddisfare sono primari e, quindi, è costruendo un legame solido con i genitori che possono diminuire i livelli di stress.
A quali conseguenze porta un’azione del genere?
In età adulta, si manifesteranno delle conseguenze psicologiche di un certo rilievo. Infatti, un trauma rimarrà comunque iscritto nella memoria dei bambini, della serie, “anche se piangi, non mi interesso a te”. Oltre a vari problemi affettivi, potrebbero comparire dei sintomi depressivi, problemi d’insonnia, dipendenze varie, ansia.
Un atteggiamento del genere non ha alcun valore pedagogico in quanto, come già detto, si tratta di soddisfare i bisogni primari del bambino e non puri capricci, parlando dei primi mesi di vita. I neonati tra l’altro hanno una percezione del tempo diversa da quella degli adulti e per loro l’attesa potrebbe risultare infinita. Non riusciranno mai a capire da quanto tempo stanno piangendo, perché alla fine dei conti il loro pianto non viene mai sedato.
Coccole a volontà
Coccolare i bambini e rendersi presenti nei primi mesi di vita apporta molti vantaggi a livello psicologico. Da uno studio condotto dall’Università di Notre-Dame, si è appurato che, in età adulta, i bambini che nei primi mesi di vita sono stati maggiormente coccolati, acquisivano più autostima e sono riusciti molto meglio nella vita rispetto a quelli che erano stati ignorati.
Si parla di 600 adulti sottoposti all’esperimento, i quali erano più produttivi, godevano di una salute migliore, erano più empatici verso il prossimo e avevano decisamente meno tendenze depressive.
Un consiglio per i neogenitori: seguite il vostro istinto! Se il bambino piange e voi non resistete, abbracciatelo, coccolatelo e fatelo sentire amato. È una reazione naturale e spontanea, che verrà premiata in futuro.