Sin dal momento che arrivai in Kenya, nel 2003, rimasi colpito dalla quasi totale assenza di informazione sul problema della malattia mentale.
Quel che ho scoperto è che non è un caso che i centri preposti alla cura della malattia psichiatrica ricevano pochissimi fondi dal governo: come HIV e omosessualità, la malattia mentale, in questa parte del mondo, è un ben radicato tabù, qualcosa di cui non si deve parlare, che deve piuttosto essere tenuta nascosta, chiusa a doppia mandata nel buio di uno scantinato.
Nairobi, Kenya, Africa orientale: molto spesso le persone che soffrono di depressione acuta (reattiva o endogena), schizofrenia, epilessia, bipolarismo o altri disturbi psicologici o psichiatrici sono marginalizzate, discriminate e ancor peggio accusate di essere possedute o vittime di malefici o magia nera (qui chiamata “juju”). Considerate quindi un peso e una vergogna dalle loro famiglie, queste persone sono abbandonate, nascoste, confinate nelle loro case, a volte incatenate nei cortili ed altre volte lasciate a morire. Inoltre la completa mancanza di adeguate infrastrutture mediche aggrava la situazione.
In Kenya ci sono soltanto due ospedali dedicati alle malattie mentali: Mathare a Nairobi, una metropoli con circa 4 milioni di abitanti, e Port Reitz a Mombasa, la econda città del Kenya con un milione di persone. L’ospedale Port Reitz ha anche reparti pediatrici e un centro per le protesi. Qui il semplice nominare la parola Mathare evoca immagini di anime perdute, vite negate, disperazione e persone arrivate ad un vicolo cieco.
Nel 2007, per riempire questa tragica lacuna, l”ONG inglese Basic Needs, fondò una clinica ai sobborghi di Nairobi, per accudire le persone affette da problemi mentali ma i fondi durarono per soli due anni e la struttura fu presto chiusa.
Fu Melanie Blake, un’infermiera psichiatrica diplomata , di origine Inglese ma vissuta gran parte della sua vita in Kenya, che dopo aver lavorato come volontaria per Basic Needs, trovò fondi privati e salvò il centro che riaprì nel 2009 con il nome di Kamili, una parola Swahili che significa “il Tutto”.
Oggi Kamili è un centro di riferimento dove le persone di zone vicine possono ricevere medicinali e supporto psicologico con la possibilità di rivolgersi a personale qualificato . Oggi Kamili accoglie e si prende cura di 1600 anime.
Il mio reportage vuole essere un tributo (qui la gallery fotografica): vorrei dividere questo foto in vari capitoli settimanali. Ogni capitolo dedicato a persone diverse, dalla fondatrice di Kamili, Melanie Blake, alle sue assistenti (volontarie), alle infermiere e ai pazienti che mi hanno onorato, me, un perfetto sconosciuto, con il racconto delle loro vite.
L’autore di questo resoconto è il fotografo Giulio D’Ercole (Canvas Africa Productions).
Ulteriori informazioni sul centro Kamili si possono trovare visitanto il sito web del centro.
Per donare denaro all’organizzazione potete visitare la sezione “Contact” del sito.
“Ed infine vorrei personalmente ringraziare non solo Melanie Blake, Salome, Lucy e le altre volontarie del centro e i loro pazienti per avermi permesso di portare avanti questo lavoro, ma anche Silvano Agosti e Marco Bellocchio che nel 1975 realizzarono “Matti da Slegare”, un documentario sul disagio mentale che, allora, quando avevo solo 14 anni, mi aprì gli occhi contribuendo a farmi diventare la persona che sono oggi”
Giulio D’Ercole