Dr. Domenico Giuseppe Bozza, specialista in psicologia.
Ci sono i numeri, prima di tutto, che raccontano la violenza sulle donne. Impressionanti, scandalosi e allarmanti, che danno l’idea della gravità e dell’urgenza del fenomeno. Ma dietro ai numeri non bisogna dimenticare che si celano storie di donne che, ogni giorno, in tutto il mondo, subiscono abusi.
Purtroppo, non è possibile negarlo: la violenza sulle donne è tra le violazioni dei diritti umani più diffuse al mondo. Subisce un abuso, mediamente, una donna su 3 dai 15 anni in su. Può accadere ovunque. Dentro le mura domestiche, sul posto di lavoro, per strada, mentre si viaggia tranquillamente sui mezzi pubblici. Il 53% delle donne residenti in Unione Europea afferma di evitare determinati luoghi o situazioni per paura di essere aggredita.
Eppure, la casa è spesso il luogo più spaventoso. Sono mariti, fidanzati e compagni a commettere gli atti più gravi: in Italia sono infatti responsabili del 62,7% degli stupri. Restando nel Bel Paese, l’Istat ci fornisce dati drammatici. Secondo l’ultimo rapporto, il 21% delle donne italiane – pari a 4,5 milioni – è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subito la violenza più grave: 653 mila donne vittime di stupro, 746 mila di tentato stupro.
Il 25 novembre è la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne. Una data importante e significativa per affermare, ancora una volta, che l’amore è rispetto, che l’amicizia è rispetto, che il rapporto tra uomo e donna merita rispetto, ovunque questo si snodi. In casa, al lavoro, per strada. Perché una donna che subisce un trauma porterà con sé delle ferite incolmabili.
Ed è per questo motivo che abbiamo voluto approfondire il tema con il dr. Domenico Giuseppe Bozza, psicologo.
Quali sono i tipi di violenza?
È la Convenzione di Istanbul a definire i contorni che assume questo fenomeno. «Con l’espressione violenza nei confronti delle donne – si legge – si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano, o sono suscettibili di provocare, danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».
Insomma, si tratta di una sorta di jolly che ogni uomo può giocarsi come meglio crede. Può farlo in ambito sessuale, fisico o psicologico. Certo, la violenza sessuale include l’imposizione di pratiche indesiderate che feriscono, fisicamente e psicologicamente. Si tratta, ovviamente, di un’umiliazione che provoca nella vittima disagi psichici oltre che fisici. Ma non è solo uno schiaffo, una spinta, una ferita, un rapporto sessuale non consenziente a dire che sì, si sta subendo una violenza.
È anche la violenza psicologica, infatti, a ledere in modo pressoché indelebile l’identità della donna: bastano derisioni, molestie verbali, denigrazioni e insulti per convincersi di non valere nulla, di non essere all’altezza dell’uomo che si ha accanto e dei figli che si stanno crescendo.
Purtroppo, però, questa forma di violenza diviene molto spesso difficile da comprendere. Non sono rari i casi in cui vittima e carnefice non si rendono conto di essere tali. Spesso, all’interno della coppia si insinuano progressivamente degli atteggiamenti che vengono recepiti come “normali”: la donna accoglie ciò che la corrode, anche perché privata dal suo anticorpo, l’autostima. Non per questo, però, la violenza psicologica non esiste e non è deleteria. Anzi. La donna si annulla, e non c’è nulla di più grave.
Quali sono i traumi che una donna si porterà sempre con sé dopo aver subito una violenza fisica?
Fermo restando le diverse tipologie di aggressione e di violenza nei confronti di una donna, il trauma psicologico reputo essere quello più marcato, poiché va a inserirsi all’interno di dinamiche molto profonde dell’Io.
Parlo di tipologia perché, per esempio, una aggressione fisica come può essere quella effettuata con sostanze acide gettate sul volto crea un danno non solo estetico ma pure all’identità di quella donna, offesa e deturpata in quella che è la sua futura, eventuale relazione con altri individui, quindi anche sentimentale.
Quindi, sebbene i danni del corpo spesso si considerano come passeggeri, in realtà è opportuno fare molta attenzione anche alla dinamica della violenza stessa.
Per quanto attiene ai danni psicologici, essi saranno tanto più gravi quanto più tardivo sarà un intervento di supporto psicologico, nonché tardiva la vicinanza della rete di relazioni affettive che gravitano attorno alla donna.
Poiché intaccata sarà la fiducia e la capacità di lasciarsi andare a un altro uomo, non è escluso un trauma che implichi una effettiva difficoltà a nuove relazioni, senza che vi sia una sostanziale diffidenza che, come si può immaginare, ben poco si incastra con un sentimento come l’Amore che vorrebbe entrambi i partner lasciarsi andare a un sentimento così bello e intenso.
Altri sintomi che potrebbero instaurarsi sono:
- Ansia
- Depressione
- Attacchi di panico
- Isolamento sociale
E queste sono tutte condizioni legate a una paura della rinascita. Proprio perché il sentirsi letteralmente «morte dentro» offre poco spazio alla speranza di una ripresa.
Come può una donna uscire dal vortice della violenza?
Per uscire dalla violenza, è innanzitutto fondamentale denunciare i propri carnefici.
La paura iniziale – inibente – di future e più gravi abusi, è proprio ciò che alimenta l’aguzzino di turno, che si fa forte di questo senso di fragilità della sua vittima.
Occorre ribadire con convinzione che se è vero che l’amore è un sentimento che dona gioia, piacere ed emozioni, uno schiaffo dato durante una discussione non è testimonianza di tale sentimento. Quindi questi segnali devono allarmare immediatamente, prima che il circolo vizioso di «accetto tutto perché tanto mi ama», prenda il sopravvento.
Oggigiorno esistono, tra l’altro, numerosi servizi che aiutano donne in tali condizioni a denunciare salvaguardandosi. Anche la Polizia di Stato ha avviato progetti atti a proteggere le donne da uomini violenti in numerose questure italiane. Penso che numerosi passi avanti debbano essere compiuti sia per proteggere la vittima dopo una denuncia sia dopo che la persona violenta, arrestata e condannata, abbia scontato la sua pena. La Giustizia deve dunque lanciare un messaggio chiaro alle donne, affinché possano denunciare con la sicurezza di non vedere il proprio coraggio contaminato e deriso da un ritorno a delinquere del mostro di turno.
Le donne spesso non denunciano: ecco che entra in gioco la cosiddetta vittimizzazione secondaria. Di cosa si tratta?
Le stime diffuse dall’Istat ci dicono che solo il 7% degli stupri viene denunciato. Sono dunque migliaia gli episodi di violenza che rimangono impunti. Le donne hanno paura a rivolgersi alle autorità, dato che molto spesso gli abusi si consumano tra le mura domestiche. Oppure si vergognano, temendo le conseguenze sociali di quanto accaduto.
E quando decidono di denunciare, le donne molto spesso si trasformano da vittime a colpevoli. È questo il fenomeno della cosiddetta vittimizzazione secondaria: una volta denunciato il fatto, spesso ricevono in cambio una sorta di minimizzazione dell’accaduto, vedendosi addossare colpe che, in realtà, non le spettano.
In questi casi, si genera un vortice di sofferenza e malessere: le vittime sono spesso indotte a rivivere più volte l’accaduto, magari ripetendo particolari scabrosi e dolorosi del crimine subito, magari sentendosi trattate con indifferenza, freddezza, o addirittura con sospetto dalle istituzioni, con l’impressione che la propria credibilità e la propria moralità siano messe in dubbio.
Non solo. Quando si parla di violenza sessuale, spesso si fa riferimento a una quadrupla vittimizzazione: quella dovuta alla violenza, seguita delle aggressioni «psicologiche» operate dalla polizia, poi dal personale medico, infine dal sistema giudiziario.
Violenza contro le donne: è un fenomeno che è possibile prevenire?
Sicuramente sì, con le azioni di prevenzione. Con progetti atti a diffondere già da piccoli, a piccoli uomini e piccole donne, che amare significa donare e non togliere. Nelle scuole, nelle famiglie, in tutti quei contesti educativi che rappresentano le radici del futuro cittadino, è bene iniziare a introdurre materie come educazione alla sessualità e alla affettività, per gestire le proprie emozioni. Ciò è particolarmente importante, soprattutto in un mondo dove sembra diffondersi sempre di più la cultura della rabbia e dell’aggressività.
E non dimentichiamoci che anche noi psicologi abbiamo una grande responsabilità, che è quella di saper informare da subito i nostri pazienti quando avvertiamo situazioni potenzialmente pericolose dal punto di vista emotivo/affettivo.