Femminicidio. Quante volte negli ultimi giorni abbiamo sentito utilizzare questa parola, rimanendo colpiti dalle tristi vicende di cronaca. Veronica Valenti, giovane donna catanese accoltellata dal suo ex fidanzato, Elena Celeste, probabilmente assassinata dal suo compagno. Sono questi solo gli ultimi due nomi di donne la cui tragica fine è comune a quella di molte altre vittime di violenza, fuori e dentro le mura domestiche.
Ma cosa spinge a tanto? Lo abbiamo chiesto al dr. Guglielmo Campione, psicoterapeuta, che ci ha aiutato a cogliere gli aspetti più oscuri della violenza sulle donne.
Dal punto di vista psicologico, cosa spinge un uomo a esercitare violenza su una donna? A volte, l’aggressore agisce in conseguenza a un rabbia più o meno intensa; altre volte, invece, sembra non ci sia alcun apparente motivo.
Direi le “rabbie”, più che la rabbia per l’insieme di sentimenti che si esprimono in un unicum, ovvero quelli di sentirsi ingabbiati, impotenti, infantilizzati, abbandonati e tante altre emozioni che vanno lette sempre all’interno della storia dei soggetti, e della storia della coppia stessa.
Resta da spiegare il comportamento femminile molto frequente, che tollera la violenza e che la gradisce fino a un certo punto. Di questo non si parla mai perché non è politically correct oggi, ma lascia una grande lacuna nella comprensione della dinamica perversa dell’intera coppia.
Perché in Italia c’è molto femminicidio? La cultura del nostro Paese può influire in qualche modo?
In Italia, la cultura della tradizione e della storia è molto forte e questo può essere letto come un fattore che condiziona la capacità di adattamento al cambiamento del ruolo delle donna.
Esiste un profilo psicologico dell’aggressore? Sono persone che hanno già alcuni determinati problemi (se sì, quali), o un comportamento aggressivo può sorgere anche in un soggetto apparentemente “sano”?
Non direi un profilo ma più profili: dal soggetto più pragmatico, con più sensazioni e reazioni che pensiero, a quello con difficoltà di controllo degli impulsi, al soggetto ossessivo che cerca di tenere tutto sotto controllo, al sadico, all’alessitimico.
L’aggressore, quando colpisce, può essere considerato “fuori di sé”? E’ possibile capire quanto un uomo è cosciente della sua azione? Molti, dopo la violenza, è come se riemergessero da uno stato di shock e non ricordassero nulla, o quasi nulla, di ciò che hanno fatto prima.
Il termine latino “raptus” significa “rapito”, non più in grado di controllare la rabbia: dal punto di vista neurofisiologico, è un cortocircuito di scariche neuronali nel nucleo dell’amigdala appartenente al cervello rettiliano, il più antico di tutti, che esclude sempre la coscienza con un vero black out.
Cosa esprime la violenza contro le donne? E’ il desiderio di imporre, nel modo più sbagliato, il proprio potere sulla donna? Deriverebbe quindi dall’incapacità di gestire non solo la rabbia, ma anche il rapporto con la partner (magari nei più banali momenti di conflitto)?
Oppure essa sfoga traumi e paure di altro genere che, ovviamente, derivano dal passato familiare del soggetto?
L’uomo che non deve chiedere mai non riesce ad attingere alla tenerezza per timore della perdita del controllo nel mostrarsi fragile e bisognoso.
È prigioniero ancora del fantasma di un femminile materno castrante da cui deve liberarsi, e non ha neanche avuto un’occasione paterna di tolleranza e comprensione della sconfitta e dell’abbandono, viste come eventualità che possono sì ferire, ma non uccidere.
Quali possono essere gli eventi che portano un uomo a sviluppare questo comportamento? Avere visto o subito violenze domestiche può essere una causa determinante? Oppure c’è anche un problema affettivo (l’espressione dei propri sentimenti, la vita sessuale, il rapporto con gli altri, ecc.)?
Il femminicida ha vissuto il rapporto con il femminile materno prima come occasione illusoria di onnipotenza e poi come realtà abbandonica di tradimento. Di sano, nel soggetto, ci deve essere il rapporto strutturale col femminile.
Perché spesso la violenza sfocia in un atto sessuale, in una violenza carnale? Cosa simboleggia per il violento l’abuso sessuale?
L’abuso sessuale simboleggia la celebrazione delirante del dominio/sottomissione, ma anche l’odio con la degradazione dell’immagine femminile a esclusivo organo sessuale.
La vittima è spesso costretta a intraprendere un percorso di terapia che le permetta di affrontare e superare il trauma. Ma l’aggressore, al di là dell’ovvia procedura destinata alla legge, come va trattato dal punto di vista psicologico? Esiste un percorso di terapia che lo aiuti a uscire da quel tipo di comportamento, come la terapia comportamentale?
Nessuna terapia efficace può essere solo comportamentale: la terapia dev’essere focalizzata sugli aspetti affettivi degradati.
In che modo l’educazione familiare può evitare la formazione di aggressività?
Non si può evitare l’aggressività che è una componente antica del comportamento umano, ma si può certamente insegnare a gestirla, sviluppando empatia e intelligenza emotiva.
Esistono piccoli segnali con cui riconoscere una personalità violenta?
I violenti odiano sempre essere contraddetti e questo è possibile leggerglielo in faccia, se si è stati educati a farlo.
Quanto influisce il condizionamento mediatico sul femminicidio (film, telefilm, notizie di altre violenze)?
Il vero condizionamento mediatico è quello che induce sempre a considerare il pensiero come inutile, lento e ingombrante e l’azione aggressiva efficace, veloce e coraggiosa. Come in un videogioco la violenza pare non avere conseguenze sulla vita dell’altro, la morte pare resettabile.