Dr. Ludovico Tallarico, specialista in epatologia.
“La cirrosi epatica è la naturale evoluzione dell’epatite cronica. In passato, definire un fegato come “cirrotico” era sufficiente per connotare sia uno stato anatomo-patologico che clinico. Negli ultimi tempi, grazie anche alle terapie antivirali, si è visto che tale visione andava rivalutata, riformulando il concetto di cirrosi da malattia statica e inesorabilmente progressiva a dinamica e bidirezionale; questo significa che si può verificare una regressione e guarigione”.
Il dr. Ludovico Tallarico, epatologo, rispondendo ad alcune nostre domande, ci fornisce un corretto inquadramento di questa malattia del fegato.
Cosa è la cirrosi epatica?
Istologicamente, la cirrosi è definita come un processo diffuso in cui la normale architettura anatomica dei lobuli è sostituita da noduli anormali, separati da tessuto fibroso. La biopsia epatica è di fondamentale importanza nel definire il danno istologico, stabilendo il grado (livello di infiammazione) e lo stadio (livello di fibrosi) del danno epatico.
Tra i sistemi di stadiazione della fibrosi più comuni, la scala METAVIR è contraddistinta da 4 stadi,
- F0: mancanza di fibrosi
- F1: fibrosi portale
- F2: fibrosi periportale
- F3: fibrosi a ponte
- F4 cirrosi
In questo contesto, una volta che la fibrosi ha raggiunto le fasi finali, la diagnosi di cirrosi è stabilita e il processo, dal punto di vista antomo-patologico,viene considerato come lo stadio finale. Vi è, però, la necessità di ridefinire la cirrosi per riconoscere il suo rapporto con l’ipertensione portale e le relative modifiche circolatorie che più fedelmente riflettono la progressione, la reversibilità e la prognosi.
La diagnosi di ipertensione portale può essere effettuata con la misurazione del gradiente porto-epatico con il cateterismo delle vene sovraepatiche, oppure clinicamente, quando sono presenti le sue complicanze (ascite, varici, encefalopatia porto-sistemica) o mediante segni radiologici e/o clinici, ad esempio la splenomegalia, che si associa spesso a ipersplenismo, che determina inizialmente trombocitopenia e poi pancitopenia.
Clinicamente si deve inquadrare la cirrosi, se è in fase di compenso o di scompenso, perché la prognosi è diversa.
Nella fase di compenso, sono state identificate 2 sottopopolazioni, in base alla presenza o all’assenza di varici.
La cirrosi scompensata è caratterizzata dalla presenza e dallo sviluppo di complicanze clinicamente evidenti, conseguenza dell’ipertensione portale. Esse sono:
- emorragia da varici
- ascite
- encefalopatia epatica o insufficienza epatica (ittero)
La fase scompensata può essere sottoclassificata ulteriormente in una fase più grave, definita dallo sviluppo di ricorrenti emorragie da varici, ascite refrattaria, iponatriemia e/o sindrome epato-renale.
Quali sono le correlazioni tra fibrosi e ipertensione portale?
Nella malattia epatica cronica, la fibrosi progredisce fino ad arrivare alla cirrosi e continua a peggiorare finché il fattore eziologico è presente.
Nella pratica quotidiana, la fibrosi epatica viene generalmente misurata in modo non invasivo, senza praticare una biopsia, ricorrendo al Fibroscan, che determina il grado di elasticità/rigidità epatica, oppure analizzando alcuni marcatori serici, non sempre strettamente fegato specifici. Alcuni marcatori sono protetti da brevetti, altri sono basati su valori di laboratorio di routine. I vantaggi pratici includono la loro elevata praticabilità (> 95%) e una buona riproducibilità inter-laboratori.
Gli svantaggi consistono che non sono precisi nel rilevare fasi intermedie della fibrosi e poi i risultati possono essere influenzati dai cambiamenti nella clearance dei singoli parametri o dalla presenza di altre coomorbilità. Pertanto, debbono essere interpretati da specialisti, nel contesto clinico di altri test (biochimici, radiologici ed endoscopici), onde evitare falsi risultati positivi o falsi negativi.
Quali sono le cause della malattia?
I virus (HCV, HBV e HDV), l’alcol, la steatoepatite non alcolica, i disordini autoimmunitari e colestatici, le malattie metaboliche, genetiche, da accumulo di ferro o di rame, sono le cause principali della malattia cirrotica.
Il virus epatitico C, in assenza di fattori acceleranti (alcol ed altre coinfezioni), può causare cirrosi nel 20% dei soggetti, dopo circa venti-trenta anni dal contagio. Una volta instauratasi, l’intervallo medio di tempo che porta allo sviluppo di ipertensione portale e all’insufficienza epatica è compreso tra i 5 e i 10 anni. Pazienti infettati in età più avanzata hanno lesioni istologiche più severe e sono suscettibili di una evoluzione più rapida verso la cirrosi.
Il virus epatitico B può causare epatite cronica, anche nel 90% dei casi, se il contagio avviene in epoca perinatale; se l’esposizione è compresa tra 1 e 5 anni di età, il rischio di malattia cronica scende al 30%. Nei bambini di età superiore ai 5 anni di età e negli adulti, solo il 3-5% sviluppa un’infezione cronica. Nei soggetti con epatite cronica vi è una incidenza di cirrosi del 2-3% annuo, in correlazione con una maggiore produzione di HBV-DNA e con la presenza dell’antigene e (HBeAg positività).
Il virus dell’epatite Delta, essendo un virus difettivo, per causare infezione richiede un’infezione concomitante da HBV, che è necessario a fornirgli il mantello (HBsAg) per penetrare negli epatociti e dai quali essere esportato in circolo. Una volta penetrato nella cellula, l’HDV è capace di replicazione autonoma indipendentemente da un effetto “helper” dell’ HBV. Ne consegue che suscettibili all’epatite Delta sono i soggetti non immuni all’HBV e quelli già infetti dall’HBV; i meccanismi di infezione sono diversi nei due contesti, come diversa è la storia naturale e l’impatto clinico della malattia.
La prima modalità di infezione è la coinfezione HDV/HBV. Nel soggetto suscettibile all’HBV, l’HDV è trasmesso insieme all’HBV. In questa situazione, chiamata coinfezione, l’HDV viene espresso in funzione della virulenza dell’HBV. Quanto più rapidamente e completamente il virus B diffonde negli epatociti, tanto più numerosi sono gli epatociti vulnerabili all’HDV e tanto più la sua infezione è sostenuta e massiva. La coinfezione ha un decorso quasi sempre acuto in quanto l’infezione concomitante da HBV si esaurisce di regola in poche settimane, togliendo all’HDV il substrato biologico necessario a perpetuare la propria sintesi; la coinfezione da HDV cronicizza, secondo il rischio intrinseco di evoluzione, verso la cronicità dell’infezione acuta da HBV, valutabile a non più del 2% negli individui adulti.
La seconda modalità è la sovrainfezione. S’intende per sovrainfezione da HDV, l’infezione da parte di questo virus di un portatore di HBsAg. L’infezione preesistente da HBV fornisce il terreno biologico ideale alla replicazione dell’HDV, la funzione helper in questo caso non è fornita dal virus B che sostiene l’HDV nel materiale infettivo originale ma dall’HBV, che precedentemente e indipendentemente ha colonizzato gli epatociti del portatore sovrainfettato. Da notare che la preesistente infezione da HBV può attivare quantità infinitesimali di HDV. La sovrainfezione, nella maggioranza dei casi, progredisce verso l’infezione cronica da HDV; lo stato di portatore di HBsAg fornisce, infatti, le condizioni adatte, nelle quali il virus difettivo può replicare indefinitivamente.
Studi epidemiologici indicano che in Italia ci sono circa 1.000.0000 di soggetti con infezione attiva da HCV e circa 300.000 portatori di epatopatia cronica HBV-indotta. Non è noto il numero di soggetti con epatopatia cronica alcol-correlata e quanti siano quelli con steatoepatite metabolica.
Calcolando che circa il 20-30% dei pazienti con epatopatia cronica sviluppa una cirrosi epatica nel corso di due-tre decenni e che una quota consistente di questi andrà incontro all’insorgenza di complicanze della cirrosi, quali l’insufficienza epatica e l’epatocarcinoma, ne risulta che circa 200.000 italiani sarebbero affetti da cirrosi epatica.
Ogni anno il 5% di essi muore a causa della malattia cirrotica (circa 10.000) e circa 1000 cirrotici all’anno subiscono il trapianto di fegato. Il consumo di alcolici accelera la progressione della fibrosi e lo sviluppo della cirrosi, mediante tossicità diretta da alcool e modificazioni della risposta immunitaria al virus.
La cirrosi epatica è contagiosa?
Il termine cirrosi deriva dal greco “Skirros” che significa duro, fibroso e “Kirros” che significa giallo, dal colore che il fegato assume, quindi, la parola cirrosi è un termine che deriva da una descrizione anatomica, pertanto si possono contagiare le infezioni che col tempo possono causare cirrosi.
I virus che causano epatiti croniche e cirrosi sono quelli dell’epatite B (HBV) e dell’epatite C (HCV). Entrambi si trasmettono per contatto diretto col sangue o attraverso oggetti personali da taglio contagiati. Il virus HBV si trasmette attraverso i rapporti sessuali, mentre il rischio di infezione per il virus HCV nel caso di rapporti sessuali monogami è molto basso. Pertanto, è opportuno evitare:
- l’uso promiscuo di oggetti potenzialmente infetti (forbicine, rasoi, oggetti personali da taglio);
- praticare tatuaggi e piercing in ambienti non controllati;
- rapporti sessuali non protetti con partners multipli o potenzialmente a rischio di infezione.
Come si cura la cirrosi?
Nella malattia epatica cronica, la fibrosi progredisce fino alla cirrosi. Tale processo può essere ritardato o persino bloccato e la maggior parte delle malattie croniche di fegato sono oggi controllabili o curabili. Allo stesso tempo, alcune forme di cirrosi possono essere efficacemente controllate, così come possono essere gestite per tempi più lunghi le complicanze della malattia.
Nei pazienti con cirrosi ancora compensata, un trattamento efficace stabilizza la malattia e previene o rallenta lo sviluppo di complicanze cliniche (ascite, sanguinamento digestivo, insufficienza epatica, ecc…), con l’eccezione dell’epatocarcinoma. Da quasi quindici anni sono disponibili farmaci efficaci e sicuri in grado di inibire stabilmente la replicazione del virus dell’epatite B, che possono determinare una regressione della cirrosi e ritardare o evitare il trapianto. Da circa cinque anni si utilizzano farmaci ad azione antivirale diretta, in grado di eliminare il virus dell’epatite C in oltre il 95% dei pazienti e con tali farmaci si spera si possa ottenere lo stesso risultato dei farmaci che si usano per l’epatite B. A tali trattamenti si aggiunge l’efficacia indiscussa delle misure dietetico comportamentali.
L’esercizio fisico e la perdita di peso riescono a far diminuire l’ipertensione portale in pazienti obesi, indipendentemente dalla causa sottostante. Per le forme tossiche e metaboliche utili provvedimenti sono l’abolizione dell’alcol, la dieta, i salassi e la terapia chelante.
L’efficacia delle terapie ha una ricaduta pratica in tutti gli stadi della malattia al fegato. Se si sono già sviluppate le varici castro-esofagee, i beta-bloccanti non selettivi (propranololo, nadololo, timololo, carvedilolo) restano la pietra miliare della prevenzione del sanguinamento, perché diminuiscono la pressione portale attraverso la riduzione del flusso portale e dell’indice cardiaco, con il blocco del recettore beta1, e attraverso la vasocostrizione splancnica, con il blocco beta2-adrenergico. Il Carvedilolo fornisce una maggiore diminuzione della pressione portale ed è indicato come terapia di prima scelta per la profilassi primaria del sanguinamento. Inoltre, i beta-bloccanti aumentano il tempo di transito intestinale, riducono la traslocazione batterica e diminuiscono il rischio di peritonite batterica spontanea.
L’uso dei beta-bloccanti è utile in pazienti con piccole varici (<5 mm) senza segni di colore rosso e funzione epatica buona/moderata (Child-Pugh A/B). I beta-bloccanti dovrebbero ridurre il gradiente porto-epatico a 12 mm Hg o inferiore (risposta ottimale) o almeno del 20% del suo valore basale (buona risposta emodinamica). Tuttavia, una risposta emodinamica soddisfacente a lungo termine è ottenuta solo nel 33%-50% dei pazienti. Nei non-responder, l’aggiunta di basse dosi di un NO-donatore, come l’isosorbide-5-mononitrato, determina una ulteriore riduzione della pressione portale, aumentando però, gli effetti collaterali. L’aggiunta dell’isosorbide ha dimostrato di salvare circa un terzo dei non-responder ai beta-bloccanti.
In generale, il trattamento di scelta per la prevenzione primaria o secondaria dell’emorragia da rottura delle varici esofagee è la legatura elastica delle varici; è l’opzione preferita nei pazienti con controindicazioni o intolleranza ai beta-bloccanti (dopo aver tentato con il carvedilolo, che di solito è meglio tollerato). Tuttavia, contrariamente ai beta-bloccanti, la legatura delle varici non impedisce altre complicazioni dell’ipertensione portale, ad esempio il sanguinamento causato da una gastropatia ipertensiva, l’ascite e la peritonite batterica spontanea.
Una volta iniziata la procedura della legatura delle varici esofagee per emorragia acuta oppure programmata per la profilassi primaria o secondaria, dovrebbe essere ripetuta ogni 2-4 settimane fino ad ottenere “eradicazione” completa delle varici. Lo screening endoscopico a 1, 6, 12 mesi, e successivamente ogni 12 mesi è raccomandato per rilevare eventuale ricomparsa di varici ad alto rischio.
L’uso precoce della TIPS (transgiugulare intraepatico portosistemico shunt) riduce il rischio di risanguinamento, migliora la sopravvivenza ed è una scelta obbligata in caso di sanguinamento delle varici non controllato.
La TIPS è una procedura poco invasiva; si crea uno shunt tra una vena epatica e la vena porta intraepatica, sostenuto da uno stent metallico che è sufficientemente grande per ridurre efficacemente la pressione portale e abbastanza piccolo da non causare insufficienza epatica ed encefalopatia epatica. Idealmente, dovrebbe mantenere un gradiente di pressione portale tra 10 e 12 mm Hg.
Le indicazioni principali per la TIPS sono il trattamento del sanguinamento acuto da varici, come terapia preventiva in pazienti ad alto rischio o come terapia di salvataggio dopo fallimento del trattamento medico più endoscopico e nell’ascite refrattaria. In un terzo, circa, dei casi si può verificare encefalopatia grave, non gestibile con terapia medica, che richiede la chiusura della TIPS.
La malattia può causare la morte?
Le complicazioni della cirrosi sono in rapporto diretto con la gravità e lo stadio della malattia. La storica classificazione di Child-Pugh, pur rappresentando i pazienti in maniera statica, risulta essere a tutt’oggi un valido strumento per inquadrare anche prognosticamente il paziente cirrotico. Lo score prognostico è un metodo abbastanza semplice ed oggettivo.
I pazienti in Classe A (punti 5-6) avrebbero una stima di sopravvivenza a 1anno del 100%, quelli in Classe B (punti 7-9) dell’80%, quelli in Classe C (punti 10-15) del 45%.
Queste stime riguardano pazienti con classe di Child non modificata dai trattamenti e possono essere influenzate da eventi intercorrenti (febbre, disidratazione, emorragia, ecc.).
Lo score di MELD (model for end stage liver disease), sviluppato per valutare la sopravvivenza dei cirrotici dopo intervento chirurgico, è stato utilizzato invece per assegnare ai pazienti il grado di priorità nelle liste per trapianto e valuta solo tre parametri: bilirubina, creatinina e INR.
L’alterazione di tali parametri riflette il deterioramento della funzionalità renale oltre che di quella epatica, pertanto il punteggio Meld è più utile di quello Child per predire la sopravvivenza dei pazienti scompensati.
La prognosi della cirrosi è diversa se clinicamente si presenta in fase di compenso o di scompenso.
Nella fase di compenso, sono state identificate due sottopopolazioni, in base alla presenza o all’assenza di varici, nel primo caso la mortalità ad un anno è dell’1,5%, nel secondo del 2%.
La cirrosi scompensata è caratterizzata dalla presenza e dallo sviluppo di complicanze clinicamente evidenti, conseguenza dell’ipertensione portale, se è presente solo emorragia da varici, la mortalità a un anno è del 10%, se il primo evento dello scompenso non è il sanguinamento ma l’ascite, l’encefalopatia o l’insufficienza epatica (ittero), la mortalità a un anno è del 21%. La fase scompensata può essere sottoclassificata ulteriormente in una fase più grave definita dallo sviluppo di ricorrenti emorragie da varici. In molti casi, la morte non si verifica a causa di sanguinamento, ma per le infezioni, per la sindrome epatorenale e per l’insufficienza epatica.
Nella cirrosi epatica la causa di morte più comunemente riferita è l’insufficienza epatica (inclusa la sindrome epatorenale e la sepsi), seguita dalla emorragia da varici e HCC, che si sviluppa a un ritmo abbastanza costante del 3% all’anno ed è associato ad un esito peggiore in qualunque stato si sviluppi. Un altro fattore predittivo importante di morte è l’età del paziente
Qual è la percentuale di sopravvivenza per chi soffre di cirrosi epatica?
Nei pazienti con cirrosi compensata (fase 1 e 2), in particolare in quelli che rimangono in uno stato di compenso, il rischio di morte è basso.
- Fase 1 è caratterizzata dall’assenza di varici esofagee e di ascite. Mentre i pazienti rimangono in questo stato, il tasso di mortalità è a partire da 1% all’anno. I pazienti che escono da questo stato, passano a un tasso cumulativo di 11,4% l’anno: 7% a causa dello sviluppo di varici e del 4,4% a causa dello sviluppo di ascite (con o senza varici).
- Fase 2 si caratterizza per la presenza di varici esofagee, senza ascite e senza sanguinamento. Mentre i pazienti rimangono in questo stato, il tasso di mortalità è del 3,4% all’anno. I pazienti che lasciano questo stato e sviluppano ascite (6,6% all’anno) o attraverso lo sviluppo di sanguinamento delle varici prima o al momento dello sviluppo di ascite (tasso del 4% all’anno).
- Fase 3 è caratterizzata da ascite con o senza varici esofagee in un paziente che non ha mai sanguinato. Mentre i pazienti che rimangono in questo stato, il tasso di mortalità è del 20% l’anno.
- Fase 4 è caratterizzata da sanguinamento gastrointestinale con o senza ascite. In questa fase, il tasso di mortalità a un anno è del 57% (quasi la metà di questi decessi si verifica entro 6 settimane dal primo episodio di sanguinamento).