I funghi allucinogeni possiedono caratteristiche psiocoattive e psichedeliche.
Ne esistono di molte specie e pare che molte religioni e culti prevedessero il loro uso fin dall’antichità.
La psilocibina è la sostanza-principio attivo che si trova in questi funghetti “magici” e che porta a sperimentare sensazioni uniche dovute a un sovraccarico di stimoli creativi.
Non sempre, tuttavia, queste sensazioni sono positive: può accadere infatti che alcuni soggetti possano accusare quello che tecnicamente viene definito “bad trip”, un mix di sensazioni sgradevoli e angoscianti che possono portare alla paranoia.
Nel passato, alcuni studi avevano dimostrato come alcuni effetti di questi funghi allucinogeni non svaniscano del tutto nel giro di poche ore, ma, al contrario, possano durare molti mesi e ridurre l’attività cerebrale.
La nuova teoria
Una recente ricerca ha evidenziato che queste sensazioni avvengono poiché il cervello diventa iperconnesso, stimolando i collegamenti all’interno di specifiche aree e anche tra le aree stesse. La psilocibina si lega ad alcuni ricettori del cervello, come per esempio il neurotrasmettitore serotonina, e produce i suoi effetti in grado di alterare l’umore di chi la assume.
I primi risultati
Dopo avere somministrato la psilocibina ad alcuni volontari, si è notato che il loro cervello, esaminato con la tecnica della risonanza magnetica funzionale, mostrava innumerevoli connessioni e aveva riattivato aree precedentemente inattive. Le connessioni, inoltre, non erano casuali e scollegate, ma ordinate e precise. Una volta sospeso il farmaco, le connessioni sono tornate normali.
“Siamo in grado di intervenire sulle implicazioni di una tale organizzazione” – ha dichiarato Giovanni Petri, autore della ricerca. “Un possibile effetto collaterale di questa maggiore comunicazione attraverso tutto il cervello è il fenomeno della sinestesia – fenomeno che permette di mescolare le percezioni sensoriali e che è spesso riportato in concomitanza con lo stato psichedelico”.
Il pensiero corre subito ai potenziali usi clinici che potrebbero derivare da una simile scoperta: stimolare regioni cerebrali danneggiate per un loro recupero dai danni eventualmente causati da ictus e altre patologie del cervello.