Viviamo ormai in un'epoca che celebra la produttività, l'efficienza e la performance personale come simboli di valore: l’essere umano, infatti, viene spesso ridotto a numeri, risultati e prestazioni.
A scuola, al lavoro, nello sport, nelle relazioni, tutto sembra dipendere da quanto si riesce a performare. In questo contesto, dunque, tensione e ansia da prestazione non sono disturbi isolati, ma sintomi di un sistema che chiede sempre di più, spesso senza offrire tempo per respirare.
Ma è davvero inevitabile vivere sotto pressione? E cosa possiamo fare per interrompere questo ciclo?
La performance come misura di valore personale
La cultura della performance affonda le sue radici nella modernità occidentale: l'idea che il merito individuale determini il successo è diventata non solo una convinzione sociale, ma un imperativo morale.
Chi ottiene ottimi risultati è virtuoso, chi sbaglia è colpevole. Questa equazione, se portata allo stremo, finisce per influenzare la percezione di sé – generando senso di inadeguatezza, ansia e paura di fallire.
Stando a quanto emerso da uno studio pubblicato sul Journal of Anxiety Disorders, tra i giovani è in crescita il fenomeno dell’ansia da prestazione: il 38% degli studenti universitari intervistati, infatti, riferisce di provare un'ansia costante legata al rendimento accademico.
Il fattore scatenante sembra essere la pressione autoimposta alimentata da standard irrealistici e continui confronti con altri individui (che, spesso, scaturiscono dai social media).
Ansia da prestazione: non solo una questione scolastica o lavorativa
Quando si parla di ansia da prestazione, il primo contesto che viene in mente è legato all’ambito scolastico o professionale: in realtà, esistono dinamiche ben più complesse (nella vita sociale, nello sport, nella sessualità).
Ogni volta che ci si sente valutati o osservati, ogni volta che si teme di “non essere all’altezza”, si attiva una risposta psicofisica simile a quella di una minaccia reale.
A livello mentale, si manifestano feroci autocritiche, previsioni catastrofiche e pensieri ossessivi – mentre il corpo, dal canto suo, entra in “modalità allerta” generando tachicardia, respiro corto, difficoltà di concentrazione, tensione muscolare.
L’obiettivo non è più “fare bene”, ma “non fallire”. E questa differenza è sostanziale.
I meccanismi alla base: perfezionismo e confronto sociale
Alla base dell’ansia da prestazione si trovano spesso due trappole cognitive: il perfezionismo e il confronto sociale. Chi lo sperimenta spesso collega il proprio valore personale al risultato ottenuto, vivendo ogni inciampo come una minaccia alla propria identità.
Il perfezionismo non è solo un desiderio di fare bene le cose, ma l’esigenza che tutto sia impeccabile e senza margine di errore.
Il confronto sociale, invece, è amplificato dai canali digitali. Vediamo solo il meglio degli altri – i successi, i premi, i riconoscimenti – e ci convinciamo che siano la norma. Questo crea una percezione distorta, dove il proprio percorso sembra sempre insufficiente rispetto a quello altrui.
L’ansia da prestazione si intreccia con il sentimento della vergogna, un’emozione che scaturisce dal timore di non essere all’altezza – un sentimento che spinge le persone all’iper produttività per evitare il giudizio altrui.
Ci si trova, quindi, all’interno di una società super competitiva, dove regna il costante confronto con gli altri e l’identità dell’individuo è minacciata e instabile, alimentando un’ansia cronica che si manifesta in ogni aspetto della vita.
Per gestirla, molti si rifugiano nell’azione continua e nei successi, ma questo approccio porta a esaurimento e perdita di autenticità. Per uscire da questo ciclo, serve riconoscere le vere radici dell’ansia e costruire un senso di sé basato su valori profondi e relazioni autentiche.
I numeri del fenomeno
Un’indagine condotta dal Consiglio Nazionale dei Giovani (CNG) ha evidenziato che il 65% dei giovani ritiene che chi soffre di difficoltà psicologiche sia discriminato, mentre oltre il 70% ha sperimentato ansia, depressione o disturbi dell’umore, spesso legati a stress lavorativo, problemi familiari e pressioni sociali.
Tutto questo indica un cambiamento culturale profondo: il “dover essere performanti” è ormai interiorizzato, e non necessariamente legato a ordini o aspettative dirette da parte di genitori, insegnanti o datori di lavoro.
La cultura della performance ha generato un modello umano iper competitivo, in cui il valore personale sembra misurabile solo in termini di risultato. Ma non siamo macchine, e la vera ricchezza non è l’efficienza, ma l’umanità.
Non si tratta solo di gestire meglio lo stress, ma di ripensare insieme il sistema che lo genera. Dobbiamo iniziare a premiare la gentilezza, la collaborazione, il riposo, la capacità di vivere relazioni significative. Tutto ciò che non “produce” ma che rende la vita degna di essere vissuta.
Strategie per disinnescare il meccanismo
Abbiamo deciso di chiedere un parere su questo argomento al Dr. Iannone, psicologo psicoterapeuta specializzato nella cura di ansia e panico:
Viviamo immersi in un clima culturale che, giorno dopo giorno, alimenta una narrativa tanto sottile quanto pervasiva: sei ciò che produci, vali quanto performi.
Questo messaggio – ripetuto, esplicito o implicito, nei contesti scolastici, lavorativi, sportivi e relazionali, sia online che offline, – finisce per insediarsi dentro di noi, modellando l’autopercezione e, in modo quasi invisibile, generando tensione, ansia da prestazione, senso di inadeguatezza e paura del fallimento.
Questo fenomeno, oggi, è sempre più diffuso: molti giovani e adulti non vivono per esprimersi, ma per dimostrare qualcosa, spesso a sé stessi, ancora di più agli altri.
L’ansia da prestazione non è più solo una risposta individuale a un esame, a un colloquio o a una gara: è diventata il sottofondo emotivo costante di una società iper competitiva, in cui si è sempre sotto osservazione, reale o immaginaria che sia.
È proprio questo clima culturale a generare le condizioni ideali per il perfezionismo, l’autoesclusione e la paura paralizzante di sbagliare.
Da terapeuta credo fermamente che non sia inevitabile vivere così, possiamo cambiare rotta e imparare a disattivare questi meccanismi. Ecco, quindi, alcune strategie concrete, quotidiane, psicologicamente efficaci per farlo.
Allenare la consapevolezza del tuo dialogo interiore
Spesso, l’ansia da prestazione è alimentata da un dialogo interiore ipercritico, giudicante, a tratti punitivo.
Potrebbe interessarti anche:
- Tra pressioni sociali e burnout: il lato nascosto della genitorialità
- Defusione cognitiva: come liberarsi dai pensieri negativi
- Amore e identità: come non perdere sé stessi nella coppia (e non diventare solo due magliette abbinate)
Una strategia concreta è quella del “diario del dialogo interiore”: ogni volta che si sente pressione o ansia, annotare i pensieri automatici che si attraversano e chiedersi:
- questa frase è un fatto o una valutazione?
- a chi appartiene questa voce dentro di me?
- se un amico mi parlasse così, come mi sentirei?
Questo esercizio allena la metacognizione, ossia la capacità di osservare i propri pensieri senza identificarcisi o accettarli ciecamente ed è un passo fondamentale per liberarsi dalla trappola dell’auto-giudizio.
Uscire dal perfezionismo e accettare un margine di errore
Il perfezionismo, spesso, è una risposta alla paura del giudizio. Chi ha sviluppato una forte ansia da prestazione tende a non tollerare l’imperfezione, e a vedere ogni sbaglio come una minaccia all’identità personale.
Una strategia per allenarsi all’imperfezione è quella di scegliere un’attività in cui concedersi volontariamente di sbagliare o essere imperfetti in modo intenzionale.
Poi, bisogna osservare le proprie reazioni, senza giudicarle. Questo abitua, a piccoli passi, a tollerare l’errore come parte dell’esperienza umana, non come un fallimento identitario.
Praticare tecniche di regolazione fisiologica
L’ansia da prestazione non è solo mentale: è anche corporea. Quando siamo sotto pressione, il sistema nervoso autonomo si attiva in modalità “lotta o fuga”.
Esistono alcune strategie molto utili che ti consentono di regolare la tua ansia:
- sedersi in posizione comoda;
- mettere una mano sul petto e una sulla pancia;
- inspirare dal naso contando fino a 4, gonfiando la pancia (non il petto);
- trattenere per 2 secondi;
- espirare lentamente dalla bocca contando fino a 6-8. Farlo per 5 minuti, 2 volte al giorno o comunque quando ci si sente sotto pressione.
Questo tipo di respiro attiva il nervo vago, abbassa il cortisolo (l’ormone dello stress) e riduce l’attivazione ansiogena.
Non confrontarsi costantemente con gli altri
Il confronto sociale è diventato pervasivo, soprattutto nell’era dei social media. Vedere continuamente i successi altrui – premi, voti, carriere brillanti, talent show – crea l’illusione che “gli altri ce la facciano, ma io no”.
È possibile ritagliarsi, ogni giorno, 10 minuti di “connessione con il reale”:
- spegnere il telefono o metterlo in modalità aereo;
- scrivere tre cose che fatte bene, anche se piccole;
- fare un esercizio di gratitudine: notare una cosa per cui si è grati, anche minima (un sorriso ricevuto, un caffè caldo, un momento di silenzio). Questo riduce il focus sul confronto e potenzia l’autoefficacia percepita.
Riscoprire il valore intrinseco dell’esperienza
Quando si è focalizzati solo sulla performance, si perde il piacere del “fare per il gusto di fare”. Tutto diventa un mezzo per un fine: un voto, un risultato, un riconoscimento.
Eppure, i momenti di gioia più autentici sono quelli in cui ci si immerge nell’esperienza, senza dover dimostrare nulla.
Provare a fare questo esercizio: ogni settimana, dedicarsi a un’attività senza obiettivi, qualcosa che si fa solo perché piace: disegnare, camminare, cucinare, scrivere, suonare, leggere.
Riformulare la visione del successo
Il successo non è ottenere tutto, ma vivere in coerenza con i propri valori: questo messaggio, però, non è ovvio, né facile da integrare, in un mondo che mostra solo chi è arrivato.
Suggerisco questo esercizio che può guidare in questa pratica: scrivere i propri cinque valori fondamentali (es. autenticità, amicizia, curiosità, autonomia, cura).
Poi chiedersi:
- quanto le mie scelte quotidiane riflettono questi valori?
- sto perseguendo obiettivi coerenti con ciò che per me conta davvero?
Questo tipo di riflessione aiuta a spostare il focus dal risultato esterno alla direzione interna. E questo è il terreno dove l’ansia da prestazione perde potere.
Lavorare sul senso di identità attraverso la psicoterapia
Molte forme di ansia da prestazione derivano da un’identità fragile, costruita più sull’approvazione esterna che sull’autenticità interiore. In questi casi, la psicoterapia diventa uno spazio sicuro dove ricostruire il senso di sé.
Non c’è debolezza nell’andare in terapia, ma un atto di responsabilità verso di sé. Attraverso la relazione terapeutica, è possibile esplorare le origini del tuo bisogno di approvazione, rielaborare esperienze passate e imparare a riconoscere il tuo valore indipendentemente dal rendimento.
Come psicologo e psicoterapeuta, posso affermare con fermezza che non siamo fatti per essere macchine, ma esseri umani.
Per questo, abbiamo diritto alla fragilità, vulnerabilità, al dubbio, all’errore. Combattere l’ansia da prestazione non significa “imparare a performare meglio”, ma restituire a sé stessi il diritto di esistere per ciò che si è, non per ciò che si dimostra.
È un processo, non un interruttore: ogni piccolo passo – un respiro più consapevole, un pensiero riformulato, un confronto evitato – è un atto di liberazione. Bisogna ricordarsi che non siamo il nostro voto, il nostro stipendio, la nostra performance. Siamo molto di più. Ed è proprio lì, in quel “di più”, che possiamo ritrovare la libertà.