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Calcio nelle coronarie: perché è importante misurarlo

Redazione

Ultimo aggiornamento – 14 Aprile, 2020

calcio nelle coronarie: i rischi

Il calcio presente nell’arteria coronaria, detto CAC, è un valore valutativo di prim’ordine per verificare l’eventuale insorgenza di malattie cardiovascolari.

Infatti, il calcio coronarico è un fattore di rischio superiore ad altri fattori, per quel che riguarda le patologie cardiache, avendo (da solo) un potere predittivo positivo, che si attesta tra il 20% e il 35%, e un potere predittivo negativo che sfiora il 100%.

Nelle comuni arterie, infatti, non vi sono calcificazioni di sorta. Quando vi sono calcificazioni coronariche, invece, stanno a indicare la presenza di malattie coronariche.

Come sono distribuite le calcificazioni coronariche?

Le calcificazioni coronariche tendono ad aumentare con l’avanzare dell’età e sono più comuni all’interno di placche complesse, presentando altresì emorragie e necrosi. Inoltre, le calcificazioni coronariche sono più frequenti negli uomini che non nelle donne.

Stenosi coronariche e infarti sono fortemente correlati alle calcificazioni coronariche, come hanno dimostrato diversi studi.

Un CAC maggiore di zero, implica un rischio assoluto per le malattie cardiovascolari del 3% annuo (si tenga presente che chi non possiede CAC ha un rischio assoluto dello 0,12% annuo).

Secondo uno studio del 2001, i soggetti aventi un calcium score index maggiore di 160 hanno una probabilità significativamente alta di coronopatia ostruttiva nei 30 mesi successivi al riscontro.

Il CAC è, dunque, fondamentale per predire la possibilità di incorrere in stenosi coronariche. Tale parametro viene misurato tramite tomografia computerizzata e il punteggio calcolato per la densità di calcio nelle placche è detto punteggio Agaston.

Uno studio prospettico osservazionale MESA (2006) è stato condotto per verificare le associazioni tra volume e densità di calcio nell’arteria coronarica e le patologie cardiovascolari.

Lo studio comprendeva circa 4000 volontari (uomini e donne) di 4 differenti gruppi etnici (bianchi non-ispanici, ispanici, cinesi e afroamericani), tra i 45 e gli 84 anni, senza malattie cardiovascolari in corso e aventi una quantità di calcio nell’arteria coronarica superiore allo 0. I volontari sono stati seguiti e studiati per più di sette anni, e sono state registrate tutte le patologie cardiovascolari incorse in questa finestra temporale (per un totale di 265 eventi patologici).

Gli studi hanno verificato che la densità del calcio nell’arteria coronarica è inversamente correlata alla patologia coronarica e al rischio cardiovascolare. Lo studio ha dimostrato che la riserva di perfusione miocardica è dunque inversamente associata alla presenza e alla severità delle calcificazioni coronariche (in adulti asintomatici).

Dunque, anche chi non accusa segnali clinici di cardiopatia ischemica può avere una ridotta riserva coronarica, dovuta a aterosclerosi coronarica subclinca.

GVM

Calcificazioni coronariche: ci sono i soggetti più colpiti?

Anche secondo il MESA, le calcificazioni coronariche sono maggiori negli uomini, piuttosto che nelle donne e i valori totali di calcium score di un uomo sono pari a quelli di una donna di 15 anni più grande.

Le calcificazioni coronariche sono maggiormente presenti nei pazienti affetti da diabete mellito (circa il 75%), in coloro che sono fumatori (circa il 63%) e nei soggetti aventi ipertensione arteriosa (circa il 50%). Chi possiede calcificazioni coronariche ha una probabilità che è 28 volte più grande rispetto a chi non ne possiede.

Il fumo di per sé, inoltre, rappresenta un fattore di rischio che va ad aggiungersi a quello delle calcificazioni coronariche, nella probabilità complessiva di incorrere in un evento cardiovascolare; infatti, tra tutti i soggetti esaminati, aventi calcificazioni, coloro che fumavano hanno manifestato una frequenza di eventi cardiaci doppia rispetto ai soggetti non fumatori (in percentuale: 11% fumatori contro il 5,4% non fumatori).

Secondo quanto riporta l’American Heart Association, la placca calcifica corrisponde a un ateroma di tipo Vb. Un individuo avente calcificazioni coronariche, se già a rischio per le malattie cardiovascolari, diviene un soggetto affetto da malattia aterosclerotica documentata (ciò è particolarmente significativo riguardo alle arterie coronarie, ma vale anche per carotidi e per altre arterie).

La presenza di piccoli punti calcifici disposti lungo le arterie coronarie sta a indicare un individuo affetto da malattia coronarica articolata e in stadio avanzato.

Uno studio, pubblicato su Circulation nel 2004, ha analizzato il rapporto tra i depositi di calcio e i pazienti affetti da miocardio acuto, angina instabile e angina stabile. I depositi calcifici nei pazienti con miocardio acuto erano in numero più elevato rispetto agli individui con angina stabile, ma in questi ultimi i depositi si presentavano più estesi e più lunghi. Nei pazienti affetti da miocardio acuto, inoltre, le calcificazioni avevano un aspetto a chiazze e non uniforme.

Secondo Raggi, soggetti con calcium score maggiore di zero e aventi, ad esempio, 40 e 80 anni, la probabilità di sopravvivenza è, rispettivamente, dell’88% e del 19%, mentre per un paziente senza calcificazioni, la mortalità è, mediamente, dello 0,3% per un quarantenne, e del 2,2% per un settantenne.

In sintesi, chi non presenta calcificazioni coronariche e ha un età superiore ai 70 anni, ha un rischio cardiovascolare molto più basso di chi ha calcificazioni coronariche.

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a cura di Dr.ssa Elisabetta Ciccolella
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